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I diari di “Caro Diario”, Moretti svela i segreti del film del quale non vuole liberarsi

Credit: Ansa foto
Di Arnaldo Casali
Pubblicato il 24 Ott. 2020 alle 16:01

Nanni Moretti sale sul palco del Nuovo Sacher alle 20.40, con dieci minuti di ritardo, e si scusa scagliandosi contro chi è arrivato all’ultimo momento e quelli che si sono attardati al bar. Per l’ultima replica di I diari di Caro diario, il piccolo spettacolo che ha allestito per accompagnare la versione restaurata del suo capolavoro, Nanni ha scelto il suo cinema di Trastevere, quel “Nuovo” nato negli anni Trenta come dopolavoro dei monopoli di Stato e che nel 1991 ha rilevato aggiungendo al nome quello della sua torta preferita. Ha l’aria austera e gli occhi liquidi, il regista, attore, produttore ed esercente; si toglie la mascherina solo sul palco: “Stiamo vivendo un momento drammatico” dice. “State attenti – ripete – state attenti”. Chiede di non essere fotografato né filmato, ma conoscendolo nessuno si era azzardato ad alzare il telefonino. “Quello che farò, lo farò solo per voi: per le 205 persone che oggi sono in sala”. Si scusa se – durante la lettura – si fermerà per bere dell’acqua. Ma ne ha bisogno, dice.

Ha una mazzetta di fogli tra le mani: sono le trascrizioni al computer dei suoi vecchi quaderni. Quei quaderni che hanno ispirato Caro diario, e che ne raccontano la genesi, dalla prima idea all’uscita nelle sale, attraverso oltre un’ora di narrazione che alterna momenti drammatici, comici e poetici. Quando gli era venuta voglia di filmare i suoi giri in vespa per Roma stava lavorando alla storia di uno psicanalista che vive su un’isola; non lo dice ma si tratta evidentemente di La stanza del figlio, che avrebbe ripreso a scrivere dopo l’uscita di Caro diario, fermandosi ancora per girare Aprile, e completarlo infine nel 2001.

In vespa sarebbe dovuto essere – spiega – un cortometraggio da proiettare insieme ad un film vero, un po’ come sarà – nel 1996 – Il giorno della prima di Close-Up (tutto incentrato sulla sua attività di esercente al Nuovo Sacher). Poi decide di farne un film intero, aggiungendo gli altri due episodi: “Isole” e “Medici”. Le riprese in vespa, per la cronaca, le ripeterà per ben tre volte nell’arco di un anno – con diverse velocità della vespa e di ripresa – prima di essere soddisfatto.

Al soggiorno nelle Eolie, tra Lipari, Alicudi, Stromboli e Panarea è dedicato gran parte del diario: dalle pagine drammatiche sulla malattia di Antonio Neiwiller – che durante le riprese scopre di essere malato di leucemia e muore tre giorni prima dell’uscita del film – alla paura di salire su un elicottero per raggiungere il vulcano, dalla difficoltà a gestire l’esuberanza di Renato Carpentieri fino allo stalking ai danni della produttrice Conchita Airoldi che Moretti aveva preferito a Carla Signoris per il ruolo della regina delle notti di Panarea. Nanni racconta di essersi inginocchiato – al telefono – e aver supplicato la donna di tornare sull’isola per completare la scena. “Sei una goccia cinese, Nanni!” le aveva risposto lei (un termine che lo stesso Moretti userà con chi scrive, quando lo inseguirà per ottenere un suo contributo per un libro su cinema e religione). Alla fine la più grande fatica di tutto il film si risolve con pochi secondi di scena. Ma a superare questa follia ci sono i milioni gettati alle ortiche perché le musiche commissionate a Wim Mertens non gli piacciono: 50mila dollari di compenso e 10mila di penale per non averle utilizzate. E poi la celebre scena con Silvana Mangano che canta El negro Zumbon, scelta perché Goffredo Lombardo aveva rifiutato di concedere i diritti di Perdono con Caterina Caselli, e poi i ciak ripetuti – tutti uguali – quaranta volte, e l’unico per il passaggio del traghetto: “Forse la scena più bella del film”.

Uno dei passaggi più drammatici è quando legge su Epoca: “Nanni Moretti racconta la sua lotta contro il tumore”. “No – dice lui – io non lotto contro il tumore: io mi sto curando. Non credo che combattere come un guerriero mi dia più possibilità di guarire”. Un discorso che il regista inserirà anche in una delle scene più dure de La stanza del figlio.

Al racconto della malattia nel film sono dedicate molte pagine di diario, come quelle in cui confessa la soddisfazione per essersi ferito nelle scene in cui si gratta ossessivamente, “perché i graffi veri sono molto meglio di quelli fatti dal truccatore”.
Il medico cinese che gli fa l’agopuntura, spiega, è il vero medico cinese che lo aveva curato. “Sosteneva che cinque minuti in assenza di pensieri equivalgano a cinque ore di sonno, ma sul set non riusciva a rilassarsi: diceva che era più stressante un giorno con me che dieci sedute di agopuntura”.

In mezzo ci sono anche progetti di documentari mai fatti (uno sulla morte di Feltrinelli e un altro sull’omicidio Calabresi), l’articolo omofobo di Umberto Eco contro Pasolini e poi – ancora volta – l’amato Nuovo Sacher, con le proiezioni dell’irraggiungibile Heimat 2 di Reitz e di Wittgenstein di Derek Jarman (“Carlo Mazzacurati e Michelangelo Antonioni andarono a vederlo e uscirono prima della fine”).

In mezzo irrompe il funerale di Federico Fellini a Cinecittà (“La bara mi sembrava troppo piccola per lui. In ogni senso”), la fretta di concludere il film in tempo per andare a Venezia, e infine il ripiego su Cannes, la primissima proiezione di fronte a cinque persone, con il fratello e la sorella commossi.

Alla fine la passione e la partecipazione con cui lo splendido sessantenne interpreta quelle parole scritte quasi trent’anni fa lasciano l’idea che, a differenza di quanto successo con tutti gli altri suoi film, di Caro Diario Nanni Moretti non possa e non voglia liberarsi: non a caso è l’unico con cui ama ripetersi: aggiungendo episodi (come ha fatto con la Prima di Close-Up), girandone il seguito (Aprile), rendendogli omaggio con un’altra passeggiata in vespa postata su Instagram la scorsa estate, e portandolo a teatro: prima nel 2002 con l’episodio mai girato e interpretato da Silvio Orlando e oggi con questi diari in mascherina, con cui congeda il suo pubblico nell’ultima notte prima del coprifuoco romano. Un notte di malinconia, addolcita dalla memoria di una splendida avventura di cinema e di vita, un capolavoro rinnovato e una fetta di torta Sacher con la panna.

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