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Quelli che aspettano Obama in Kenya

Obama giunge in Kenya per la prima volta da presidente degli Stati Uniti. Ma alcuni pensano già a un'altra visita, secondo loro ben più importante e significativa

Di Padre Kizito
Pubblicato il 24 Lug. 2015 alle 07:08

Il presidente
degli Stati Uniti 
Barak Obama, figlio di uno studente keniota partito per gli Stati Uniti con un programma di borse di studio organizzato dal
presidente John F. Kennedy, sta per arrivare a Nairobi.

È la prima
volta che visita il Kenya da presidente. I segni dei preparativi sono ovunque.
Fra la gente delle baraccopoli gira addirittura voce che per tutti e tre i giorni della sua presenza in città, i network telefonici saranno
oscurati, e così forse anche internet.

Se questa visita fosse avvenuta
agli inizi del suo primo mandato, per Obama sarebbe stato un trionfo
popolare. I kenioti, all’epoca, si erano convinti che uno di loro era diventato il presidente della prima potenza economica e militare mondiale.

All’euforia subentrò l’attesa – non pochi contavano su
sostanziosi aiuti per il Paese – poi la delusione e perfino
l’indifferenza. Oggi, nonostante i mass media esasperino il grado di eccitazione percepita fra la popolazione, 
la gente comune
sembra preoccupata per queste conseguenze e poco interessata alla
visita in sé.

Il giornalista

Un giornalista che
lavora per il più importante quotidiano in Kenya, e che è della
stessa etnia di Obama senior, mi dice: “Come tutti sanno i servizi
di sicurezza americani hanno completamente preso in mano la
situazione, estromettendo i servizi kenioti, notoriamente incapaci e
corrotti”.

“Gli americani riusciranno a tenere tutto sotto controllo e
il loro presidente non correrà pericoli, ma ci potrebbero essere
attentati ai margini delle zone in cui Obama sarà presente, magari
fra la folla. Grazie a Dio io son riuscito a far coincidere le mie
ferie con questa visita”.

La profetessa

Achieng Awiti,
un’anziana donna anche lei della stessa etnia del padre di Obama, è
ancor più pessimista. Ieri, fuori dal cancello di Kivuli, e forte
della sua fama di profetessa diceva a tutti con aria misteriosa:
“Obama sa di dover venire a morire qui, dov’è nato suo padre.
Porterà dolore per tutti”.

Il ragazzo di strada

Martin invece non si
azzarda in pronostici e profezie, guarda la realtà che sta vivendo. È un ragazzo di strada di sedici anni molto indipendente. Ogni
giorno viene nel centro di Kivuli Ndogo, nei pressi di Nairobi, solo per il pasto di mezzogiorno.

“La
polizia ci perseguita, vogliono ripulire le strade, secondo loro
Obama non deve sapere che noi esitiamo. Dove possiamo andare? Hanno
distrutto le nostre basi, ci rincorrono e ci picchiano appena ci
vedono. Ci mettono in prigione. Poi ci lasceranno andare quando Obama
sarà partito. Ma siamo noi la minaccia?”.

Martin dice il vero.
Questi ragazzi-spazzatura, così come vengono chiamati, per i governanti
sembra siano i colpevoli di tutti i mali del Kenya, mentre invece ne
sono le vittime, e il segno più chiaro di un’economia che
arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri.

L’educatore

Un educatore del centro
di prima accoglienza preferisce guardare al futuro con ottimismo. Azzarda un paragone e una facile profezia: “Spero che
questa visita dimostri che il Kenya è guardato con ottimismo
dalla comunità internazionale. Ma la visita a cui guardo con
speranza è quella di Papa Francesco. Lui è davvero un leader
speciale, non Obama”.

“Son sicuro che quando verrà in Kenya a fine
novembre, come ha promesso, non si arroccherà dietro i servizi di
sicurezza, andrà a visitare i poveri a Kibera, una delle più grandi baraccopoli dell’Africa e del mondo che si trova alla periferia di Nairobi, la capitale del Kenya. Neanche il nostro
presidente osa andarci, figuriamoci Obama. Ma lui, Francesco, ci
andrà”.

Non mi ero accorto che la popolarità di papa Francesco
fosse arrivata così lontano fra i poveri di Kawangware, periferia di Nairobi.

Il piccolo commerciante

La scorsa settimana i
mass media hanno messo per giorni e giorni in grande evidenza la
riapertura del lussuoso centro commerciale Westgate, dove nel settembre del 2013 avvenne un feroce attentato terroristico.
L’evento è stato presentato come il segno della capacità del Kenya
di superare le difficoltà.

Personaggi dell’alta borghesia sono stati
intervistati con sullo sfondo vetrine di lusso, bambini felici che
guardano a bocca aperta avveniristici intrecci di scale mobili.

Sfogliavo il giornale al
Baraza Cafe e un conoscente si è avvicinato: “Io avevo un
piccolo negozio di cartoleria a Kibera. Qualche mese dopo i fatti del Westgate la mia attività commerciale è stata bruciata da uno dei periodici incendi che
devastano Kibera. Ho perso tutto e nessuno era colpevole”.

“La banca
che conosceva il mio piccolo negozio si è rifiutata di farmi un prestito. Mi hanno detto che non c’erano i soldi. Ho sudato e
faticato con l’aiuto di mia moglie, la quale si è rimessa a vendere
frittelle ai margini della strada, come faceva da ragazza, e
finalmente siamo riusciti a ripartire. Mi domando dove quelli del
Westgate abbiano trovato tutti i soldi per ricostruire il loro
gigantesco e sfarzoso palazzo in meno di due anni”.

Mai come in questi
giorni in Kenya si percepisce quanto sia necessario passare
da una economia dello spreco (quella che uccide) a un’economia del
bene comune
.

Io non sono un profeta come l’anziana donna Awiti di cui vi ho raccontato prima, ma è facile pronosticare
che se papa Francesco verrà a Nairobi, sarà parte
centrale del suo messaggio evangelico.

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