Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
Home » Senza categoria

Una poltrona per due

C’è una battaglia in Sud Sudan tra il presidente e il suo vice, e un movimento che fatica a trasformarsi in partito.

Di Padre Kizito
Pubblicato il 30 Lug. 2013 alle 06:15

È una lotta per il potere personale, in un contesto complicato, con esiti imprevedibili, in cui giocano diversi fattori e potrebbe dar origine ad un lungo periodo di violenza. I protagonisti sono il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. È prematuro parlare del Sud Sudan come di uno “stato fallito” – ma già alcuni lo fanno. Comunque è reale il rischio che stia incominciando un altro lungo capitolo buio nella storia del paese.

Vediamo le principali concause di questa situazione. L’indipendenza (9 luglio 2011) non ha risolto il contenzioso con il Sudan. Sopratutto non è stata risolta la questione del confine (incluso Abyei), che resta indefinito, e di conseguenza resta aperta la questione della proprietà di alcuni importanti campi petroliferi e del flusso del petrolio, che costituisce la ricchezza su cui i due paesi vivono, e che attrae l’interesse della comunità internazionale..

I rapporti con i paesi confinanti restano problematici. Centrafrica e Rd Congo hanno problemi interni gravi e restano instabili, difficile prevedere quale posizione potranno prendere, se pure ne prenderanno una. Uganda e Kenya, su indicazione degli Usa, finora sono stati forti sostenitori di chiunque fosse al potere nello Spla/m (Esercito/Movimento popolare di liberazione del Sudan), ed entrambi hanno ormai forti legami economici con Juba (capitale del Sud Sudan), anche attraverso notevoli investimenti privati da parte di personaggi politici. A questo riguardo sono indicativi lo sconcerto (prima) e il panico (poi) del ministero esteri kenyano di fronte all’azzeramento del governo sudsudanese, voluto il 23 luglio dal presidente Kiir. L’Etiopia ha sempre cercato di mantenersi o di apparire distaccata nelle vicende interne del Sudan.

Sul piano internazionale più vasto, continua il sostegno Usa e del mondo occidentale allo Spla/m, il movimento che ha conquistato l’indipendenza per il paese, ma certamente non è un sostegno che proseguirebbe senza condizioni se qualcuno dovesse diventare responsabile dello scatenarsi di una guerra interna.

Internamente il Sud Sudan è segnato da gravi divisioni etniche. Lo Spla/m sin da prima dell’indipendenza, sotto la guida di John Garang, è sempre stato saldamente controllato dai dinka, che d’altronde è l’etnia maggioritaria. Non pochi membri di altre etnie vedono gli amministratori e i militari dinka come una forza di occupazione. Riek Machar è nuer e Pagan Amun, l’altro grande silurato, non come membro del governo ma come segretario generale dello Spla/m, è shilluk. Marian Marial Benjamin, il primo e finora unico membro del nuovo gabinetto ad essere stato nominato come nuovo ministro degli esteri, è anche lui dinka. Le prossime nomine ci diranno come Kiir intende muoversi e se la presenza dinka negli organi governativi, già forte, sarà rafforzata.

La violenza e la dominazione sono purtroppo parte della cultura sudsudanese, forgiata anche da 22 anni di guerra civile. Il prendere le armi è spesso la risposta più istintiva alle discriminazioni vere o immaginarie. Se Kiir non riuscisse a controllare politicamente lo scontento, è ipotizzabile un Sud Sudan diviso in aree controllate da gruppi armati.

La transizione dello Spla/m da movimento di liberazione a partito politico non è ancora avvenuta. Simili situazioni di transizione ci hanno insegnato che è molto difficile per chi ha partecipato alla lotta di liberazione riconoscere che altri attori politici, che magari sono stati all’estero o hanno remato contro, possano godere delle stesse libertà democratiche. Di qui la tentazione della repressione e del controllo. Inoltre un movimento di liberazione ha un alto accentramento di poteri, non più accettabile in un governo democratico. Non per niente, facendo riferimento a Sudafrica, Angola e Zimbabwe, alcuni parlano della necessità di una seconda liberazione dopo la prima liberazione dai poteri coloniali e razzisti. Il Sud Sudan ha tutte le caratteristiche per poter finire come il caso più estremo, quello dello Zimbabwe, dove dopo oltre trent’anni dall’indipendenza, il “liberatore” è ancora saldamente al potere.

Infine non possiamo trascurare la storia delle due personalità principali coinvolte in questo confronto. Il presidente Salva Kiir è stato addestrato alle sottigliezze dei servizi segreti a Mosca, prima del crollo del blocco sovietico, ha poi vissuto per anni nell’ombra di Garang, eseguendone gli ordini e imparando i più duri giochi di potere, che non si fermano dinnanzi alla vita di persone e comunità. Abituato alla segretezza, a non mostrare le sue carte, Kiir ha preso il potere alla morte di Garang (incidente di elicottero. 30 luglio 2005). Non senza dar adito a sospetti, ma comunque con il sostegno immediato degli alleati tradizionali, che non volevano un vuoto di potere destabilizzante.

Riek Machar ha tentato diverse volte la scalata al potere, sin dal 1991 quando si è proposto di rovesciare Garang con motivazioni quasi identiche a quelle che proclama oggi. Ha sempre fallito, e dal ’91 la sua corsa al potere lo ha portato anche ad allearsi per molti anni a Khartoum, macchia che ancora oggi lo segna pesantemente. Nella sua carriera non mancano episodi di massacri di popolazione civile.

Se è difficile prevedere chi dei due emergerà vincitore o e si affacceranno alla ribalta altri personaggi che per il momento stanno a guardare, purtroppo è facile prevedere che per il Sud Sudan sta incominciando una fase di assestamento politico che sarà lunga e violenta.

Leggi l'articolo originale su TPI.it
Mostra tutto
Exit mobile version