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Un giorno scriverò di questo posto

Binyavanga Wainaina è uno scrittore fuori dal coro: il suo libro racconta un' anima ribelle, anticonformista e un po’ snob

Di Ernesto Clausi
Pubblicato il 3 Nov. 2013 alle 17:32

“Il problema è che sono uno scrittore. E sebbene come molti vado a letto sognando fama e fortune, il mio intento è rimanere creativo e indipendente”. Con queste parole Wainaina rifiutava, nel 2007, il “World Economic Forum Young Global Leader”. Sarebbe stato premiato come il giovane dell’anno tra quelli emergenti sulla scena mondiale dalla fondazione svizzera che riunisce ogni anno leaders politici ed economici internazionali, intellettuali e giornalisti per dibattere sulle principali questioni globali.

Wainaina oggi ha 42 anni. E’ uscito in Italia il suo “Un giorno scriverò di questo posto”, un memoir dal ritmo serrato in cui il diario di vita dello scrittore e le cronache degli eventi africani viaggiano in parallelo. Il libro tradisce gli schemi classici della letteratura africana. E’ questo il suo punto di forza. Non è l’Hiv il tema del libro. Né la povertà o le guerre. Non ci sono i bambini soldato nei suoi racconti. I temi ricorrenti delle realtà africane ritornano, ma sono il contorno e non l’argomento principale. Mentre gli avvenimenti politici incidono sulle vite delle persone e in alcuni casi le sconvolgono.

Al centro c’è l’autore e la sua crescita come scrittore. Wainaina racconta la sua storia, quella della sua famiglia e, indirettamente, quella del Kenya post coloniale dove è nato e del confinante Uganda dove è nata la madre e dove Idi Amin ha instaurato feroce regime dittatoriale. Appartiene a una famiglia colta e benestante: un privilegio che gli consentirà di sviluppare la sua vena artistica. Cresce come i suoi coetanei sotto l’influenza dei modelli americani (soprattutto televisivi e musicali, vedi i riferimenti a Michael Jackson).

Il suo racconto (e la sua vita) partono da Nakuru, nella Rift Valley, terra selvaggia e di conflitti tribali. Qui da ragazzino si appassiona alla lettura, ascolta e interpreta suoni, odori e colori di un Kenya vivace e turbolento, in cui si mischiano oltre quaranta tribù e altrettanti idiomi. Il libro comincia quando Binyavanga ha sette anni. E’ il 1978. L’infanzia in Kenya a giocare per strada, poi la scuola, quindi l’università nel Sud Africa post apartheid, i viaggi in un Togo sovraeccitato per la partecipazione ai mondiali di calcio, in Uganda dai parenti materni. Un giro dell’Africa prima e del mondo poi, che va dai mercati di Lomè con i loro reggiseni per tutti i gusti alla vita dei college di New York, dove l’acqua esce dai rubinetti con una normalità che a chi in Africa ci è nato fa sempre effetto.

Una serie di viaggi che lo porteranno a essere osservatore delle differenti realtà africane. I suoi ricordi mischiano la sua storia a quella del continente africano, in un’ alternanza costante tra la vivace realtà che lo circonda e il suo isolamento interiore, rivolto solo alla lettura. Una sorta di fiaba africana moderna, che anche se non parla di Africa e dei suoi temi in senso convenzionale, è utile a comprendere le dinamiche post coloniali del continente.

“Ho scritto questo libro perché la gente lo legga e ne tragga piacere. Non perché capisca con questo i problemi dell’Africa” cosi si rivolgeva in un’intervista al Times. Ecco la sostanziale differenza con la maggioranza dei libri che provengono dal continente africano.

Non è un menestrello di corte: si schiera decisamente contro la narrativa didattica sponsorizzata e i depliant di sensibilizzazione. “Ecco perchè” dirà “il mio non è un libro da esibire al caffè come simbolo di un interesse verso l’Africa e i suoi problemi. Se compri il mio libro non dai soldi a Oxfam” dice provocatoriamente. Questa sua visione disincantata e ironica si rispecchia fedelmente nel suo libro. E nei suoi comportamenti. Tempo fa l’Unione Europea gli commissiona prima la stesura di un libro sul Sudan. Ma i suoi argomenti sono scomodi, parla di Sud Sudan quando questi ancora non esiste, e dice ancora no a fama e lauti compensi. Nel 2005 Wainaina pubblica addirittura un saggio satirico: “Come scrivere sull’Africa”. E, con ironia, ricorda di usare descrizioni romantiche, suggestive, e di terminare la propria opera sempre con un riferimento a Mandela.

Ma premi e riconoscimenti sono arrivati comunque per Wainaina. Nel 2002 vince il prestigioso Caine Prize for African Writing, assegnato annualmente per il miglior racconto scritto da un africano. Alla sua uscita negli Stati Uniti, Oprah Winfrey lo ha inserito nella sua celebre summer reading list. La versione italiana non tradisce le attese: merito di una traduzione impeccabile (a cura di Giovanni Garbellini ) che tiene fede al ritmo vibrante e colorato dello scrittore.

Wainaina alla fine lo ha fatto. Di questo posto, del suo posto, ha scritto. E ce lo racconta, ce lo fa vedere e vivere. 

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