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Tra patriarcato e occupazione

La condizione delle donne vista da una femminista palestinese, a colloquio con Budour Hassan

Di Susan Dabbous
Pubblicato il 8 Mar. 2014 alle 16:21

«Quando si parla di violenza contro le donne in Medio Oriente in generale, e in Palestina in particolare, ci sono due paradigmi dominanti e completamente opposti. Il primo considera la violenza come prodotto di una tradizione e di una società arretrate e intrinsecamente misogine, scegliendo di concentrarsi esclusivamente sulla categoria dei “delitti d’onore”, come se questi rappresentassero l’unica forma di violenza domestica a cui le donne sono sottoposte. L’altro, per contro, ritiene responsabile il colonialismo israeliano e la sua discriminazione istituzionalizzata, sostenendo che non ci si possa aspettare che le donne siano libere fintanto che la Palestina sarà sotto occupazione».

Tre giorni fa ho trovato queste parole in un articolo su internet mentre cercavo, devo dire un po’ annoiata, una storia interessante per l’8 marzo. Non ero affatto entusiasta all’idea di cercare una storia per coprire l’8 marzo da qui, da Gerusalemme, perché mi sembrava una cosa troppo strumentale. Poi però mi sono imbattuta in questo post che consiglio, e ho sentito il vivo desiderio di incontrare l’autrice.

questo è l’articolo

Palestina: La gabbia delle donne, tra Occupazione e patriarcato

Così, contatto Budour Hassan, l’autrice, via Facebook che accetta subito la mia richiesta di amicizia. Nell’inviarle un messaggio le dico che sono una giornalista e le do il mio numero di telefono. Dopo tre minuti esatti ricevo una telefonata.

«Pronto sono Budour», dice una voce giovane e determinata.

«Sono Susan, grazie per aver chiamato, se per te va bene, ti raggiungo per un caffè anche oggi se hai mezz’ora»

«Vediamoci all’Educational Book Shop» dice lei, dandomi appuntamento nella libreria più conosciuta di Gerusalemme Est.

Mi presento all’appuntamento e non so come riconoscerla, nel suo profilo FB non ci sono foto, ma poi un sesto senso mi dice che Budour è proprio quella ragazza nonvedente che attende in piedi con dei grandi occhiali da sole e la testa inclinata verso un punto ignoto.

«Boudur?»

«Susan?»

È proprio lei. Ci sediamo in un tavolino fuori, a Gerusalemme è già primavera.

Entro per prendere le ordinazioni e dopo pochi minuti un giovane palestinese secco come un fuscello ci porta due espresso Segafredo e una fetta torta alla carote. Inizio a parlare per rompere il ghiaccio.

Ma  anche Budour è piena di domande: che ci fa una mezza siriana a Gerusalemme? Io cerco di rispondere velocemente per riportare l’attenzione a quel che ha scritto nel suo articolo, “patriarcato e occupazione”, “botte a casa e indifferenza da parte della polizia israeliana che non prende sul serio le denunce delle donne palestinesi”, “c’è la convinzione razzista che gli arabi siano violenti, e come trattano le donne sono fatti privati”.

L’articolo è bellissimo, perché se la prende anche con la classe dirigente palestinese che ricorre strumentalmente alla presenza “cosmetica” delle donne in politica e scarica sull’occupazione israeliana qualsiasi responsabilità.

Budour ha solo 24 anni, è già laureata in sociologia alla Hebrew University, vorrebbe fare un master in diritti umani in Inghilterra per poi tornare in Palestina e non rinunciare al miglioramento delle cose nel suo paese come hanno fatto molti “cervelli in fuga”.

«Le migliori femministe palestinesi se ne sono andate – racconta – ci hanno provato a cambiare lo status quo ma non ce l’hanno fatta. Se starai qui per un po’ di tempo ti accorgerai di quanto sia frustrante vivere in questo posto»

«Perché?» chiedo.

«Perché non cambia nulla, tutta al più le cose peggiorano». Così come è peggiorata la cultura patriarcale dei palestinesi, dice, molti uomini di 50-60 anni si trovano ad avere figli molto più maschilisti di loro. E questo perché negli anni 90 spiega Bodour, «dopo l’accordo di Oslo, ai palestinesi sono state offerte due strade: quella del fondamentalismo islamico, con un chiaro progetto sociale, e quella della classe media borghese, senza nessun progetto sociale. Il risultato è che le donne sono oppresse in entrambi i sistemi».

«Cosa intendi con oppresse?» chiedo.

«Che un genitore, un fratello o un cugino ti può dire con chi, dove e quando parlare. O non parlare. Con chi, quando e dove uscire. O non uscire. Quando sei fuori, la società ti osserva, come ti vesti, cosa dici, cosa fai, a che ora torni a casa. È anche così che si consumano i “delitti d’onore”. Se a un maschio della tua famiglia giunge voce che tu, figlia o sorella, hai fatto cose immorali con un uomo, tanto basta per finire sotto terra». L’articolo di Boudur riporta molti casi di cronaca e anche un video rap, che posto anche io qui sopra, che si intitola “Se potessi tornare indietro”. Non ha bisogno di traduzioni, le immagini parlano da sole. Una ragazza dalla tomba torna alla vita, intorno a sé gli stessi fratelli che l’hanno freddata….

Finisco il caffè e mi complimento con Budour, grazie a lei ho scoperto il vero senso della Festa delle donne. Buon 8 marzo a tutte.

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