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Siria, guerra e precariato

I pezzi dalle zone a rischio vengono pagati 40 euro

Di Susan Dabbous
Pubblicato il 28 Apr. 2013 alle 10:26

Non riesco a dormire. Da due settimane il sonno è interrotto.

Non riesco a scrivere. L’ultimo articolo è uscito dieci giorni fa.

Non riesco a dire di no alle persone che mi circondano, cerco di accontentare tutti, è come se fossi immersa in un enorme e ingestibile debito di riconoscenza.

Vorrei ricominciare a scrivere, a raccontare le storie degli altri, ad abbandonare la prima persona. Ma forse prima di poterlo fare devo tirare fuori ancora un po’ di cose. Finora ho fatto la “giornalista rapita”, nelle interviste ho parlato della mia esperienza. Sperando che possa essere d’aiuto in futuro.

Quello che ti è capitato – mi hanno detto degli esperti in rapimenti – succederà, purtroppo, ad altre colleghe. Ieri al Festival internazionale del giornalismo di Perugia ho parlato delle mie strategie psicologiche durante la detenzione. Oggi invece vorrei parlare di un tema che finora non sono riuscita neanche a sfiorare: il precariato. Perché mi trovavo lì? Ho iniziato a fare la free lance da un anno.

Perché faccio la free lance? Perché il quotidiano per cui lavoravo, un giorno di anno mezzo fa è fallito. Ma non è neanche fallito. È solo andato in coma. Così come in nostri stipendi e la nostra cassa integrazione. Io e miei colleghi siamo stati abbandonati prima dall’azienda e poi dallo Stato che dovrebbe garantire “i cosiddetti ammortizzatori sociali”.

Cosa c’entra questo con la Siria? C’entra. Proverò a spiegarlo oggi, a Perugia, dove nell’ambiente del Festival mi sento compresa da centinaia di colleghi. Perché il giornalismo in Italia ha perso dignità economica? Perché un pezzo da una zona a rischio viene pagato 40 euro? Perché quando vieni rapita diventi la “nostra collaboratrice” e perché invece quando chiedi i soldi vieni pagato meno di un cameriere? Tutto questo è a dir poco vergognoso.

Quando dico ai miei colleghi stranieri il tariffario italiano restano sconvolti. Mi vergogno a dire che certe pubblicazioni non vengono neanche pagate e che devi ringraziare quando vieni buttato nel pentolone di un grande “media”.

Già, che grande fortuna! Poi accendi la Tv e vedi giornalisti che fanno carriere fulminanti. Esperti di qualcosa che fino al giorno prima facevano qualcos’altro. Viene un po’ da vomitare, un po’ da emigrare. Io però non mi sono mai autodefinita “cervello in fuga”, mi sembra una cosa idiota.

Torno alla Siria: Per uscire dalla miseria dei pezzi pagati 30 euro e presi solo quando la notizia è “alta”, ho alzato il tiro cercandomi collaborazioni molto più prestigiose. Ma anche più rischiose.

Certo l’ho fatto anche per la carriera, sarei un’ipocrita a non ammetterlo. La prospettiva di continuare a fare il free lance a “scrocco”, chissà ancora per quanto tempo, mi fa inorridire.

Avere un contratto significa dormire di più, poter affrontare le spese impreviste, non scrivere tutti i giorni email umilianti-minatorie per farsi pagare pezzi scritti otto mesi prima.

La dignità. Il mio professore di Storia contemporanea della Sapienza, con cui sono rimasta in contatto negli anni, mi ha scritto una mail bellissima. Dopo il rilascio ha espresso ammirazione per la mia dignità. Quella umana c’è, caro professore, perché quella lavorativa non esiste, per me come per tantissimi altri “giovani”, perennemente “giovani” di questo paese.

Quando chiedi un contratto di lavoro ti guardano come se avessi dei disturbi mentali. “Il settore è in crisi, meglio dedicarsi a qualcos’altro”.

Lasciare il giornalismo? Perché proprio io? Piuttosto vado sotto le bombe. Suona un po’ suicida ma non lo è.

Dietro ad una scelta del genere per me, oltre che a un grande interesse personale, c’è un grande attaccamento alla vita. C’è la scelta di vivere a pieno piuttosto che sopravvivere elemosinando un lavoro. Non c’è nessun vittimismo dietro le mie parole ma una forte e chiara denuncia.

Forse è anche per questo che non riesco a dormire.

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