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Padre Paolo, estremista del dialogo

Il gesuita si stava recando nel neonato "Stato islamico di Raqqa" dove le milizie si combattono intorno una diga

Di Susan Dabbous
Pubblicato il 31 Lug. 2013 alle 14:48

Elettricità e acqua. A Raqqa, nel nord della Siria, la battaglia infuriata a fine marzo tra islamisti filo al Qaeda e il battaglione al Faruq dell’esercito siriano libero, si è consumata attorno al controllo di una delle dighe più grandi del Paese. Il risultato, scontato, ha visto la vittoria dei miliziani che rispondono direttamente agli ordini di Ayman al Zawahiri, successore di Osama Bin Laden. Da lì la formazione dello Stato islamico di Raqqa, la cui popolazione (mezzo milione di abitanti) vedeva anche molti cristiani, ma già ad aprile i cittadini sarebbero scesi a meno di 100.000. Sapeva tutto questo Padre Paolo dall’Oglio di cui non si hanno più notizie da sabato scorso. Da quando era stato espulso dalla sua Mar Musa, monastero a 80 chilometri da Damasco, Padre Paolo faceva la spola tra Siria, Turchia e Iraq, in particolare nelle aree curde.

Il gruppo di qaidisti per “Lo stato islamico di Iraq e Levante” (ex Jabhat al Nusra), che governa Raqqa, è presente anche nel villaggio cristiano di Ghassanie, vicino Latakia, dove il 23 giugno scorso è stato ucciso padre François Mourad, francescano. Più recente è invece l’omicidio di un popolare leader dell’Esercito siriano libero, Kamal Hammami, freddato davanti ai suoi uomini mentre andava ad incontrare i qaidisti per preparare nuovi attacchi contro il regime. (Vedi post “Storia di un cannibale improvvisato”).

A padre Paolo non fanno paura gli islamisti, perché anche lui è un estremista, sì, un estremista del dialogo. Per questo voleva parlare con i qaidisti così come per trent’anni aveva dialogato col regime siriano. In un suo recentissimo articolo postato su Huffington post Italia, http://www.huffingtonpost.it/padre-paolo-dalloglio/la-morale-cristiana-e-larma-chimica-siriana_b_3622154.html

ha scritto parole molte dure contro il regime contro cui giustifica gli attacchi dei ribelli, come “legittima difesa”. Le parole del gesuita sembrano esulare ormai da un’ottica puramente religiosa, ma giudicare le cose fuori contesto mi sembra attualmente del tutto inappropriato. Per questo mi limito a scrivere i fatti. Nella zona dove padre Paolo ha dato le sue ultime notizie, a Raqqa, c’erano problemi di leadership del territorio. In particolare può far riflettere un episodio: l’arresto di un emiro ceceno da parte della milizia curdo-siriana YPG e il conseguente rapimento di decine di militanti del gruppo da parte dei qaidisti, come rappresaglia. Episodi come questo sono all’ordine del giorno, così come i rapimenti di giornalisti occidentali di cui a volte non si ha alcuna notizia per volere delle autorità nazionali o delle famiglie.

E proprio a Raqqa sono spariti pochi giorni fa due reporter europei di cui non menziono la nazionalità per rispettare il silenzio stampa. Diffondere o non diffondere la notizia di un rapimento? È un quesito che ci siamo posti il 12 luglio scorso a Beirut durante un seminario a cui hanno partecipato trenta di varie nazionalità giornalisti che coprono la Siria. Non siamo arrivati a una posizione comune: ci sono americani e britannici che pretendono il blackout assoluto e i “mediterranei” (italiani e spagnoli) che optano per la pubblicazione della notizia per avvalorare l’identità degli ostaggi (spesso accusati di essere delle spie). Poi però c’è anche una terza questione: la correttezza delle informazioni diffuse, pubblicare “rumors”, voci, è dannoso. A volte viene fatto in buona fede, altre per manie di protagonismo (“io so questo e lo so per primo”). Non c’è nessun Pulitzer da vincere e niente da dimostrare, quando si tratta una persona solo come una “notizia” si corrono rischi molto grossi, almeno sul piano etico, su quello legale invece vige l’impunità assoluta.

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