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Le meraviglie

e il perpetuo ciclo di produzione e distruzione della natura e dell'esistenza

Di Blog Fandango
Pubblicato il 24 Giu. 2014 alle 16:55

Alice Rohrwacher conduce per mano il pubblico in un inedito paese de Le meraviglie con un film che – attraverso uno sguardo puro e “meravigliato” sul mondo – tesse una trama sapiente d’incanti e disincanti, magie e illusioni, menzogne e sortilegi, sogni di fughe e fughe da sogni impossibili.

Vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2014 e distribuito da Bim, “Le meraviglie” è ambientato in una masseria immersa nella campagna umbra al confine con la Toscana, che fa da sfondo alle vicende quotidiane della famiglia di Angelica (Alba Rohrwacher) e Wolfgang (Sam Louwyck), padre rigido e anticonformista di quattro bellissime ragazzine. Tra mille difficoltà e con una laboriosità pretesa anche dalle più piccine, i componenti della famiglia – proprio come le api mellifere da loro allevate con devozione – collaborano, fino allo stremo delle forze, per mantenere la propria attività produttiva di miele, prodotti caseari e pomodori.

La protagonista Gelsomina (Maria Alexandra Lungu), la figlia più grande e la più efficiente delle sorelle che emula la forza di volontà, il senso pratico e l’autorità paterna, si ribella allo stile di vita che conduce per scelta dei genitori. La prepotente irruzione estiva, nel loro alveo di sacrificio e genuinità rurale, di una troupe televisiva nelle vesti dell’eterea e fatata conduttrice televisiva Milly Catena (Monica Bellucci) e di Martin, misterioso ragazzino con precedenti penali impegnato in un percorso di reinserimento in società, condurrà l’adolescente in un viaggio alla scoperta di sé, del mondo “oltre lo specchio” delle figure genitoriali e di nuove consapevolezze adulte.

Luminoso e minerale, disturbante e sublime, Le meraviglie coglie il contrasto profondo tra un mondo che non può più essere e un mondo che non dovrebbe essere, inanellando una catena di collisioni che culminano in poesia e potenza visionaria e psicanalitica. Si tratta di un film stratificato, percorso da immagini potenti iniettate attraverso simbologie ricorrenti e suggestioni che bussano all’inconscio – le api che escono ordinate dalla bocca di Gelsomina, il miele, il fischio -, scavando sulla superficie del visibile per svelarne l’essenza e l’impalpabile bellezza dell’esistere.

L’opera ultima della giovane regista toscana, dopo Corpo celeste (2011), è una danza corale, un’elegia contemporanea estrema oltre il tempo e lo spazio che racconta l’illusione attraverso l’illusione prima, quella del cinema, che miscela luci e ombre e svela l’insensatezza propria del “perpetuo ciclo di produzione e distruzione” della natura e dell’esistenza. Al monoteismo capitalistico, l’autrice contrappone un politeismo di dèi-bambini e valori non vendibili, tra limiti e anelito alla libertà. Soprattutto, rimarca con forza che la libertà spirituale non è in vendita, né si può produrre o comprendere, ma soltanto amare pazzamente.

Prestigiatrice di raro talento, Alice Rohrwacher ammalia per la forza visiva e la densità significante di ogni dettaglio, per la delicatezza, complessità e profondità del suo sguardo e della sua poetica, in grado di sollevare forze cosmiche e di risvegliare il fanciullino che è in tutti noi. Perché – come insegna Elsa Morante – il mondo può essere salvato soltanto dai ragazzini. D’altronde, “ogni ragazzo che passa è una morgana”.

 

di Rosalinda Occhipinti

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