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La morte del calcio

Quanto pesa a Istanbul una divisa di un altro colore

Di Cristoforo Spinella
Pubblicato il 13 Mag. 2013 alle 18:27

Avrei voluto cominciare dai cortili pieni di bambini che giocano con le maglie diverse e sdrucite dei loro idoli. Oppure con i ragazzi che, in autobus o in metro, discutono animatamente di calcio, ciascuno con uno stemma differente sulla custodia del cellulare. O, al limite, con le mie peregrinazioni negli stadi di Istanbul, speciale ognuno a modo suo e con la sua storia. E invece devo raccontare di una città che, insieme alla passione, mette nel calcio tutti i suoi lati peggiori: violenza e inciviltà, fanatismo e prevaricazione.

La questione non riguarda solo la sorta infame del 19enne Burak, tifoso del Fenerbahçe con la colpa di una sciarpa diversa e un incrocio sfortunato accoltellato a morte ieri sera a una stazione dei bus: lontano ore e chilometri dalla partita, per sgombrare il campo (di battaglia) anche dall’alibi presunto della furia agonistica di chi pure all’agonismo non prende parte. Né si ferma alle decine di feriti e agli oltre cento fermati negli scontri seguiti al derby tra Fenerbahçe e Galatasaray, a cui Burak aveva assistito nello stadio della sua squadra sulla sponda asiatica di Istanbul prima di trovare la morte in quella opposta poco dopo le 11, nel quartiere di Eyüp.

Inutile spendere troppe teorie sociologiche per interpretare questa violenza, certo frutto anche di follia individuale, che ieri ha  trasformato ancora una volta il mio quartiere in terreno di guerriglia. Un paio di cose, comunque, vanno osservate. Poche ore prima, mentre a calcio si giocava, altri gesti di violenza non sono mancati: come la doppia espulsione per il portiere del Fenerbahçe Volkan Demirel e l’esterno del Galatasaray Sabri Sarıoğlu, venuti alle mani nel finale di partita; o come le banane tirate (neppure questo per la prima volta) verso i giocatori neri del Galatasaray Didier Drogba ed Emmanuel Eboué.

Proprio un anno fa, di questi tempi, la stessa partita si giocò di sabato sera, e pur senza che ci scappasse il morto, la devastazione fu del tutto simile. Intorno a mezzanotte, le strade di Kadiköy – il quartiere dello stadio Şükrü Saracoğlu, a poche centinaia di metri da casa mia – rilasciavano immagini spettrali, vera quiete dopo la tempesta.

Amo il calcio, e amo l’amore per il calcio dei turchi nonostante un campionato di livello mai eccelso. Con tre grandi squadre storiche, e altre due al momento in serie A, Istanbul è una città che di calcio vive ogni giorno: potente strumento di coesione sociale e manipolazione politica, costruttore di identità forti e appassionate. Conta insomma ben al di fuori degli stadi, e ne riflette – come del resto da noi, anche qui cronaca recentissima – gli aspetti buoni e quelli peggiori. Ma l’Istanbul che vuole ospitare le Olimpiadi del 2020 e sogna gli Europei di calcio, deve porsi la questione di un fanatismo organizzato che quando vuole la fa ostaggio.

Per la cronaca, già prima di giocare il Galatasaray era campione di Turchia. Nessun paradosso, però: contava solo per chi era andato a vedere una partita di calcio.

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