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L’eroe dell’11 settembre

John O'Neill, l'agente FBI che parlava di fondamentalismo islamico quando il mondo guardava ai Balcani

Di Lavinia Orefici
Pubblicato il 11 Set. 2013 alle 14:03

“Succederà qualcosa…qualcosa di enorme”. Era il 10 settembre 2001 e John O’Neill, come ogni lunedì sera, era seduto con i suoi amici ed ex colleghi, Jerry Hauer e Robert Tucker, a uno dei migliori tavoli di Elaine’s, il ristorante, della New York che conta, nel cuore dell’Upper East Side.

Sicurezza nazionale, operazioni antiterrorismo e l’attacco alle Torri Gemelle del ’93 erano i loro argomenti di discussione preferiti, ma quel giorno abbondavano i brindisi. John O’Neill era appena stato nominato capo della sicurezza proprio del World Trade Center.

Dopo venticinque anni trascorsi al FBI, tra successi e scontri con i vertici, aveva deciso di lasciare il settore pubblico per approdare a quello privato, sicuramente più redditizio per un amante della bella vita.

Sulla serata, di allegria e festeggiamenti, aleggiava però l’incubo costante di O’Neill: che qualcuno tornasse a colpire il World Trade Center, ma in modo letale. “Non smetteranno finché non avranno tirato giù quei grattacieli!”, diceva.

Quella tra John e i due giganti d’acciaio era una storia di amore e di odio iniziata con l’attacco del ‘93, trasformata in un’ossessione che ne ha condizionato la carriera, diventando il filo conduttore della sua vita e infine, la sua tomba.

Brillante nel lavoro, determinato e sicuro di sé, ma anche aggressivo e molto carismatico, tanto da attirarsi le antipatie dei pezzi grossi di Washington, è stato l’unico, tra gli alti gradi dell’intelligence, a capire che l’America era sotto attacco e il pericolo veniva da oriente. È stato il primo a pronunciare il nome di “Al Qaeda”, l’organizzazione terroristica guidata da Osama bin Laden, che si stava preparando a colpire al cuore gli Stati Uniti.

John O’Neill parlava di fondamentalismo islamico, quando il mondo guardava ai Balcani.

La sua grande capacità analitica purtroppo si scontrò con l’ottusità dei suoi superiori, Louis Freeh e Thomas J. Pickard, a quel tempo direttore e vice direttore del Bureau, che ostacolarono le sue ricerche.

Nel 2001 Barbara Bodine, allora ambasciatore statunitense in Yemen, gli fece addirittura togliere il caso quando O’Neill, in seguito all’attentato nel porto di Aden al cacciatorpediniere Uss Cole in cui persero la vita diciassette marines americani, era sul punto di raccogliere informazioni cruciali che l’avrebbero condotto ai due terroristi che l’11settembre 2001 dirottarono il volo 77 dell’American Airlines facendolo schiantare contro il Pentagono. Ufficialmente la Bodine temeva per le relazioni tra i due paesi.

I rapporti tra O’Neill e il Bureau erano ufficialmente compromessi, lui era deluso e scoraggiato dal comportamento di chi avrebbe dovuto sostenerlo. David Clarke, lo zar antiterrorismo a capo del National Security Council, lo propose come suo successore, ma era una posizione di grande potere e a Washington c è chi storse il naso.

Quindi grazie all’amico, Jerry Hauer, dal 23 agosto 2001 avrebbe vegliato sulla sicurezza del World Trade Center, quelle altissime torri, tanto imponenti quanto vulnerabili. Gli amici ormai così scherzavano: “John in questo modo nessuno le toccherà più!”

La retribuzione del nuovo lavoro inoltre avrebbe dato una notevole mano ai conti di O’Neill, rigorosamente sempre in rosso; tanto era brillante nel lavoro quanto pretendeva lo fosse la sua vita. Sposato, due figli aveva una schiera di amanti, di cui Valerie James, sua compagna da undici anni era la preferita. Era amico di Robert De Niro e un calendario mondano invidiato da molti. Ricorderanno alcuni colleghi: “la sua vera attività iniziava dopo le 5 di pomeriggio!”. Capiva le persone e seduto al tavolino del bar davanti a un whiskey trasformava i suoi contatti in amici e gli amici in informatori. Sempre vestito di scuro, completo Burberry e scarpe di Bruno Magli, camminava con il cellulare attaccato all’orecchio e il BlackBerry, pieno di numeri dell’intelligence suddivisi per paese, in mano.

Quella mattina dell’11 settembre 2001 i rituali non fecero eccezione e siccome era tornato in possesso della sua macchina e non guidava più quella del Bureau era libero di accompagnare la sua fidanzata Valerie in ufficio. Sarebbe stata l’ultima volta che si vedevano, ma nessuno dei due lo sapeva.

Quando il primo aereo colpì alle 8:46 la Torre Nord John era nei suoi uffici al trentaquattresimo piano. Nella sua testa quell’immenso boato seguito da una palla di fuoco aveva già un colpevole: Al Qaeda. Alle 9:03 il secondo schianto. Era chiaro, l’America era sotto attacco. Nonostante fosse già in salvo, fuori dai grattacieli, ritornò nella lobby della Torre per aiutare vigili del fuoco di New York e FBI a coordinare le operazioni di salvataggio e chiese se veramente era stato colpito il Pentagono, il cuore della difesa statunitense. Fu visto lì per l’ultima volta. Il suo corpo è stato ritrovato solo una settimana dopo sotto le macerie ancora fumanti di un pezzo d’America che sarebbe cambiata per sempre.

Sepolto nella sua Atlanta, dov’era nato quarantanove anni prima, i suoi amici amano ricordare che nella morte John è diventato qualcosa di ancora più grande di quello che è stato nella vita. Un eroe.

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