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Il Giovane Favoloso

Il film biografico sul poeta e lo scrittore italiano Giacomo Leopardi ha già incassato oltre 4 milioni di euro

Di Blog Fandango
Pubblicato il 3 Nov. 2014 alle 12:06

Il giovane favoloso è il film diretto da Mario Martone che racconta la vita del poeta e scrittore italiano Giacomo Leopardi.

Presentato in concorso alla 71esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha già incassato 4 milioni d’incasso al botteghino. Qui il video del trailer in italiano e di seguito la recensione del film a cura di Rosalinda Occhipinti.

Un giardino rigoglioso recintato da un imponente cancello nero dalle punte acuminate a forma di lancia, orientate per un attimo contro il gracile collo di Giacomo Leopardi.

È questa una delle scene emblematiche de Il Giovane favoloso, film diretto da Mario Martone sulla vita del poeta di Recanati, interpretato magistralmente da Elio Germano.

Il motivo dell’infanzia e dell’illusione apre le danze di una visione intensa che mostra i fratelli Paolina, Carlo e Giacomo Leopardi intenti a giocare spensierati nel giardino dell’austera villa del conte Monaldo (Massimo Popolizio) e Adelaide Antici (Raffaella Giordano).

Scrigno di ricordi fuggenti e prigione maledetta, la villa fu il luogo dove crebbe e si formò il giovane talentuoso letterato, bambino prodigio in filologia ed eccelso traduttore dei classici. Oppresso da un clima domestico severo e rigido, nel quale incombevano religione e mancanza d’amore, l’anima indomita del poeta trovava conforto in quel che egli definì “il solo divertimento che m’uccide”, in uno “studio matto e disperatissimo” e nella riflessione filosofica. Ed è proprio da questo freddo quadro familiare che si generò – per ostinato contrasto – la modernità del pensiero leopardiano.

Il film, attraverso un salto temporale, mostra alcuni episodi biografici del poeta avvenuti a Firenze intorno al 1830, la profonda amicizia con l’aitante e focoso Antonio Ranieri (Michele Riondino) e l’affascinante Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis) della quale Leopardi era innamorato, la frequentazione della vita letteraria e mondana della città.

In Toscana, i salotti letterari non compresero pienamente la levatura intellettuale del poeta, capace di sgretolare le ottimistiche certezze d’inizio secolo riposte ciecamente nelle “umane sorti e progressive”. Leopardi era infatti animato da un indomabile amore per la vita, ma anche lucidamente conscio della vanità dell’ “orrido vero” e per questo emarginato dai preti e schernito con cattiveria per la sua debolezza fisica. E proprio colui che vedeva meglio degli altri venne condannato dalla “natura matrigna” alla cecità che ne precluse i piaceri della lettura e costretto a una sofferenza sempre dignitosa ma a volte insostenibile.

La natura, che nel film assume le impassibili sembianze della madre, è rappresentata da una statua di sabbia che risulta però inverosimile, quasi a evocare la sfinge interrogata da Edipo. Al seguito del fedele Ranieri, il film mostra ancora Don Giacomo con l’immancabile cilindro che si reca a Roma per poi – nel 1833 – arrivare a Napoli e lì quattro anni dopo spegnersi. Tra le distese desertiche rigogliose di ginestre, un cielo limpido denso di stelle e il Vesuvio in eruzione, la villa del Ferrigni diviene l’ultimo approdo del cagionevole e stanco corpo di Leopardi minato dalla tubercolosi ossea.

Il film chiude il sipario nel migliore dei modi, senza melodrammatiche trovate attraverso immagini che mostrano l’immensità del cosmo, interrogando “il perpetuo ciclo di produzione e distruzione” che permea il mistero ancestrale dell’esistenza. Il film presenta il grande pregio di umanizzare la figura del poeta e di sfatare il pregiudizio – duro a estinguersi – secondo cui Leopardi era pessimista a causa della malattia, svilendo così i frutti del suo intelletto.

“Ma che parole vuote! Ottimismo, pessimismo…”, così viene apostrofato da Don Giacomo in un bar un gretto personaggio che tenta di umiliarlo. Martone maneggia con grande maestria la sostanza impalpabile della poesia, imbevuta – durante il flusso filmico – nell’ipnotico ruscello elettronico di Sascha Ring (in arte Apparat) e nelle musiche di Rossini e del canadese Doug van Nort. Un gran bel film sperimentale che rompe il tabù del “mostro sacro”.

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