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Haiti, la terra che non c’è

5 anni dopo il terremoto, 85mila sono gli haitiani senza casa. Il parco industriale di Carcol ne ha sfrattati altri mille

Di Action Aid
Pubblicato il 12 Gen. 2015 alle 14:44

Per la popolazione di Haiti la terra è “kòd lonbrik” cioè il “cordone ombelicale”: il posto dove costruire una casa e crescere una famiglia, una risorsa dell’identità culturale dalle forti connotazioni sociali e politiche. Il 60% della popolazione di Haiti dipende dall’agricoltura per i bisogni alimentari e per le attività di sussistenza e nelle zone rurali il 75% dell’economia proviene proprio dalla terra.

Il terremoto del 12 gennaio del 2010 devastò Haiti e la vita di 3 milioni di persone: 230mila le vittime (anche se oggi i numeri parlano di 300mila morti accertate) e 1 milione e mezzo gli sfollati. Il terremoto colpì un paese in condizioni già critiche, con un governo locale fortemente instabile, dove il 55 per cento degli haitiani viveva con meno di 1,25 dollari al giorno e oltre il 50 percento era senza accesso all’acqua potabile. 

Cinque anni dopo, Haiti è nel pieno di una crisi economica e soprattutto politica. Oggi 12 gennaio, a mezzanotte, scade il mandato di molti parlamentari e il Presidente della Repubblica, Michel Martelly, di cui l’opposizione chiede a gran voce le immediate dimissioni, si troverà a governare un paese per decreto. Ancora una volta ieri, domenica 11, ci sono state manifestazioni di piazza per chiedere che si vada alle elezioni, rimandate dallo scorso maggio.

Anche le condizioni degli haitiani non sono migliori. Oltre alla piaga del colera che continua a fare vittime, il problema maggiore resta quello abitativo. Manca la terra (perché in mano a privati) per costruire nuove abitazioni, alcuni progetti governativi di ricostruzione sono bloccati e il Governo ha impiegato anni per realizzare una normativa nazionale per regolarizzare i campi e dare accesso ai servizi di base agli sfollati: dal 2010 ad oggi più di 60mila persone sono state sgomberate senza che gli sia stata offerta una soluzione abitativa decorosa; e a settembre i dati ufficiali parlavano di 85mila persone ancora nei campi (123), tutte a rischio sgombero.

In alcuni casi, il diritto alla terra degli haitiani si è dovuto scontrare proprio con i progetti di ricostruzione, che in realtà dovevano vedere la popolazione protagonista. Si tratta del progetto per la realizzazione del parco industriale Caracol. Una inchiesta di ActionAid evidenzia le conseguenze sociali ed economiche della costruzione di questa area industriale, finanziata con le risorse stanziate dal governo USA per la fase post-ricostruzione.

Il parco industriale Caracol sorge infatti su quelli che prima erano terreni agricoli a nord di Haiti (molto fuori la zona devastata dal terremoto) ed è stato finanziato con più di 170 milioni di dollari degli aiuti americani stanziati per l’emergenza. L’area doveva generare nuovi posti di lavoro rilanciando l’economia e all’origine del progetto vi era la filosofia dell’ ‘apertura al business‘: una strategia di sviluppo basata sull’espansione del turismo e dell’industria manifatturiera, con grande enfasi sugli investimenti stranieri.

Oggi questa realtà industriale ha messo in ginocchio i contadini e contribuito alla crisis alimentare di questa regione del Paese. Elie Josué, contadino racconta: “Ho lavorato la mia terra per 21 anni e poi sono stato costretto a lasciarla per la costruzione di questo parco. Coltivavo fagioli neri, manioca, mais, arachidi e banane e ho cresciuto tutti i miei figli grazie a questo terreno. Avrei assunto 100 lavoratori stagionali durante la stagione della semina. Li pagavo 150 gourdes al giorno più due pasti. Se avessimo avuto il supporto che necessitavamo per coltivare la terra avremmo ottenuto buoni risultati. Ora che ho perso la mia terra, non ho più un penny”.

Con il parco industriale, 366 famiglie e 720 lavoratori agricoli hanno perso i loro terreni (e quindi la loro fonte di sussistenza) con un preavviso di soli pochi giorni. Del resto, solo il 5% dei terreni ad Haiti è formalmente registrato e, in aggiunta, le forme economiche di indennizzo alla famiglie colpite sono state inadeguate e in alcun modo frutto di negoziazioni trasparenti: “Non c’è stata negoziazione, ci è stato detto di accettare l’indennizzo proposto. Noi pensavamo che il Parco sarebbe stato un’opportunità positiva per noi. Prima ci hanno promesso una terra, poi una casa, alla fine tutto quello che abbiamo avuto è una piccola cifra”, racconta un’altra contadina, Marie Marthe Rocksaint.

Cosa resta quindi dei progetti di sviluppo del parco Caracol? I posti di lavoro creati sono stati 4500 invece dei 65mila inizialmente stimati, i salari bassissimi (meno di 5 dollari al giorno) non permettono ai lavoratori di sostenere le proprie famiglie, l’area industriale minaccia l’ecosistema ambientale e l’accesso alle fonti di acqua e una colata di cemento ha ricoperto i già scarsi terreni fertili di un territorio prevalentemente montuoso.

I posti di lavoro creati e la fornitura di energia elettrica, oggi disponibile per comunità che ne erano prive, non bastano a giustificare l’investimento di un quarto del budget post-terremoto USAID. La decisione è stata presa senza la minima consultazione delle comunità locali, denuncia ActionAid, e la conseguenza è uno stato di criticità del fabbisogno alimentare nell’intera area di Caracol (tra l’altro un’area già duramente colpita da una forte siccità e dalla scarsità di mezzi di produzione).

In definitiva, i fondi stanziati dopo il terremoto sarebbero bastati per una “ricostruzione migliore” in linea con le esigenze dei contadini invece hanno (almeno in parte) finanziato un modello di sviluppo contrario alle loro esigenze e alle loro capacità lavorative.

ActionAid, che è presente ad Haiti, si è attivata, subito dopo il terremoto per progetti di primo soccorso, ma anche interventi di medio e lungo termine per ricostruire il tessuto sociale, ripristinare i mezzi di sostentamento delle famiglie colpite, creare meccanismi di coinvolgimento delle comunità locali nel processo di ricostruzione e sviluppo, rafforzare la capacità di risposta alle emergenze. Tra le attività di advocacy c’è sicuramente quella della campagna Je Nan Je, che chiede una gestione trasparente dei fondi destinati alla ricostruzione e uno stop a ogni forma di landgrabbing ad Haiti.

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