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Ecco il gatto che vuole convertirsi

"Il gatto del rabbino", una deliziosa favola contro il razzismo

Di Susan Dabbous
Pubblicato il 14 Giu. 2013 alle 23:42

Era da tempo che non ridevo così di gusto! Ho visto “Il gatto del Rabbino”, “Le chat du Rabin” o “The Rabin’s cat”, credo esista anche la versione in italiano, di sicuro in Italia c’è il graphic novel. È la storia di un gatto che dopo aver ingoiato un pappagallo inizia a parlare, se è per questo anche a leggere e scrivere. Così partono questi dialoghi surreali tra lui e il suo padrone, un rabbino algerino degli anni Venti. Il gatto parlante ha una padroncina molto sensuale (tipo Jasmine di Aladino) di cui è innamorato e per questo vuole convertirsi al giudaismo, ma è un gatto profondamente illuminista e darwinista per cui Adamo ed Eva non possono essere gli iniziatori dell’umanità etc . etc.

Così il rabbino decide che il gatto non potrà mai essere ebreo, anche se l’intelligente bestiola continua a coltivare questo desiderio. Colto da numerosi dubbi esistenziali, provocati anche da questa nuova presenza nella sua vita, l’anziano Rabbino si reca sulla tomba della moglie. Lungo il cammino incontra un suo vecchio amico, un imam sufi. Il Sufi è ovviamente musulmano, ma conoscono molte canzoni comuni che cantano insieme mentre fumano sigarette che potrebbero essere corrette con un po’ di hashish. Il sufi ha un asino, anche lui parlante ma ha un carattere decisamente pavido e poco interessante rispetto al gatto che ha sempre la battuta pronta. Il rabbino e il sufi partono con un giovane ebreo russo, fuggito durante un pogrom dentro un baule di Torah imbarcato dalla Russia in direzione Algeri, alla scoperta di un villaggio etiope dove si narra dell’esistenza di un gruppo di “ebrei neri”.

Il viaggio è ovviamente pieno di avventure, dove a vincere è sempre la saggezza sul pregiudizio. Il giovane russo s’innamora di una bellissima congolese, il rabbino li sposa contravvenendo alle regole per la conversione… tutto il film si basa sulla rottura degli stereotipi, nonostante la stereotipizzazione dei personaggi sia l’elemento di maggiore comicità. Guardando il cartone credo sia difficile passare più di dieci minuti senza ridere e il film ne dura 100. Davvero complimenti ai registi Joann Sfar, Antoine Delesvaux con una risata hanno seppellito il razzismo.

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