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La Guerra fredda del doping?

Un commento in dodici punti sull'inchiesta della Wada, il doping russo e la crisi della Federazione internazionale di atletica

Di Nicola Sbetti
Pubblicato il 12 Nov. 2015 alle 09:26

Mercoledì mi è stato chiesto di commentare per la rubrica “il mondo oggi” di Limesonline lo scandalo del doping russo scoppiato a seguito del report pubblicato dall’Agenzia mondiale antidoping (WADA). Purtroppo 20 righe non sono sufficienti per dare una risposta adeguata. Inoltre nella maggior parte dei commenti sulla stampa italiana emerge come interpretazione prevalente quella di una nuova guerra fredda. Personalmente questo approccio non mi convince del tutto quindi approfitto del mio caro e trasandato blog su TPI per provare a spiegare come la questione sia ben più complessa di una diatriba tra Stati Uniti e Russia.

1) La guerra fredda è finita da oltre vent’anni e già allora il mondo aveva smesso di essere bipolare. Gli Stati Uniti e la Russia restano delle grandi potenze, ma non hanno un controllo totale della politica internazionale, men che meno del mondo dello sport, in cui peraltro esiste una geopolitica variabile a seconda della disciplina.

2) Lo sport internazionale – non è certo una novità – è fortemente influenzato dall’andamento delle relazioni internazionali, ma allo stesso tempo ha saputo sviluppare delle istituzioni proprie (il CIO, le federazioni internazionali e la stessa WADA) le quali agiscono in maniera relativamente autonoma rispetto al sistema politico internazionale a cui pure appartengono.

Nessuno Stato è in grado di prendere decisioni per una federazione sportiva, tuttavia è possibile (e ciò avviene con frequenza) che i membri nazionali all’interno delle stesse possano portare avanti politiche care a un governo nazionale. Non vanno inoltre dimenticati gli attori economici, i quali con il passaggio dal dilettantismo al professionismo hanno acquisito un peso sempre maggiore.

3) Tutto prende avvio dal report pubblicato il 9 novembre 2015 dalla Wada, che riporta le conclusioni di un’indagine durata quasi un anno nata a seguito del documentario trasmesso dalla rete pubblica tedesca ARD (clicca qui per vedere il documentario del 2014 in tedesco e qui per il successivo del 2015 in inglese, e qui invece un’utile cronologia).

Nell’inchiesta, partendo dalle accuse dell’atleta sospesa per doping, Yulia Stepanova, e del marito, Vitaliy Stepanov, il quale tra il 2008 e il 2011 aveva lavorato per l’agenzia antidoping russa (RUSADA), si denunciava come la Federazione atletica russa avesse incentivato e coperto pratiche dopanti presso i suoi atleti e che alcuni di loro fossero stati costretti a pagare tangenti per coprire la propria positività.

La Wada, per esplicito volere del suo presidente, il britannico Craig Reedie, è stato l’unico ente interessato a reagire concretamente all’ottimo lavoro d’inchiesta del giornalista tedesco Hajo Seppelt. Al contrario, l’agenzia antidoping russa RUSADA ha negato le accuse, mentre la federazione atletica internazionale (IAAF) ha preferito non approfondire la questione.

Questa specifica inchiesta della WADA, conseguenza di un’indagine giornalistica indipendente, è dunque limitata esclusivamente all’atletica russa e non va a toccare né altri sport, né altri paesi. Tutto il resto è frutto di speculazioni giornalistiche.

4) Come ribadito dal presidente della Commissione indipendente della WADA, Dick Pound, nel corso della conferenza stampa, due parti del report riguardante la IAAF non sono state ancora rese pubbliche.

La prima riguarda le prove di corruzione in seno alla IAAF sotto la presidenza di Lamine Diack (1999-2015). Non sono state pubblicate in quanto è in corso un’indagine della polizia francese, la quale peraltro ha già portato all’arresto dell’ex direttore del Programma antidoping della Iaaf Gabriel Dollé. Poiché non si parlava più di giustizia sportiva ma di implicazioni criminali, i documenti e le conclusioni sono stati dunque girati all’interpool. La Wada comunque auspica che il report possa essere reso integralmente pubblico prima della fine dell’anno.

La seconda parte del report prende nuovamente spunto dalle accuse provenienti dal secondo documentario dell’ARDUna fonte anonima interna alla Iaaf aveva fatto pervenire ad Hajo Seppelt un database di 12.000 controlli ematici su circa 5.000 atleti d’élite effettuati tra il 2001 e il 2012, il più grande e più importante mai reso pubblico. Questi dati ora sono in mano alla Wada che li sta facendo analizzare dai propri esperti.

5) Una domanda legittima potrebbe essere: siamo di fronte a un accanimento contro i russi? È evidente che la Russia non sia l’unico paese in cui gli atleti si dopano e nemmeno l’unico in cui ciò avviene con la compiacenza e la copertura delle istituzioni sportive o persino statali.

Gli Stati Uniti hanno avuto lo scandalo Balco, l’Italia quello dell’Acqua Acetosa e gli spagnoli l’Operacion Puerto. L’atletica giamaicana nel 2013 è stata falcidiata da uno scandalo doping mentre il documentario del 2015 dell’ARD ha dimostrato chiaramente come i corridori kenioti facciano un imponente uso di epo, coperti dalla Federazione nazionale.

L’elenco potrebbe proseguire citando la Turchia, la Grecia, la Cina ma la lista degli atleti dopati (e a quanto pare sono solo la punta dell’iceberg) appare davvero infinita. Perché allora proprio la Russia?

6) La tesi del complotto anti-russo ordito alla Casa Bianca contro Putin reo di aver invaso l’Ucraina non sembra reggere. Certo, come tutte le organizzazioni internazionali, la WADA non è un ente perfettamente al di sopra delle parti. Fondata nel 1999 a Losanna sulla scia dello scandalo Festina, dal 2001 ha sede a Montreal in Canada.

È finanziata al 50 per cento dal CIO e al 50 per cento da autorità pubbliche (Nel 2015 gli Stati Uniti sono stati i maggiori investitori con 1,992,650 dollari contro i 745,875 previsti + 339,417 aggiuntivi della Russia, i 267,678 della Cina e i 745,875 dell’Italia). Nella sua storia ha avuto tre presidenti, tutti e tre anglosassoni: il canadese Dick Pound (1999–2007), l’australiano John Fahey (2008–2013) e il britannico Craig Reedie (2014–oggi).

La commissione indipendente responsabile del report era composta di due canadesi e un tedesco e anche i membri erano quasi esclusivamente occidentali. Non è quindi da escludere che ci sia potuta essere una certa prevenzione culturale di fondo nei confronti dello sport russo, influenzata a sua volta dall’imponente ed efficace sistema di “doping di stato” sviluppato negli anni dell’Unione Sovietica.

Pensare che l’input dell’indagine sia arrivato da Washington sembra davvero esagerato, ancor più se si leggono attentamente le affermazioni di Dick Pound. Dichiarando “Non crediamo che sia solo un problema dell’atletica e neanche solo della Russia”, il canadese ha da un lato insinuato che le pratiche illecite nel laboratorio di Mosca riguardassero altri sport oltre all’atletica (congettura peraltro abbastanza naturale), ma, allo stesso tempo, ha lasciato chiaramente intendere che sotto i riflettori della WADA non ci siano solamente gli atleti russi, ma tutto il sistema-Iaaf (si veda il punto 7).

Per stessa ammissione della WADA quindi, il doping russo è solo la punta dell’iceberg, e gli obiettivi delle future indagini saranno più ampi.

A ben vedere quindi il principale motivo per cui la WADA è andata ad indagare proprio la Russia e non altri Paesi – al di là del diretto impulso proveniente dall’inchiesta dell’ARD – è tecnico e deriva dal fatto che la Russia ha avuto i suoi pentiti. E i suoi pentiti – al contrario di quanto è avvenuto negli Stati Uniti, in Italia o in Spagna – non fidandosi della Rusada, né delle autorità giudiziarie russe, hanno preferito denunciare a un ente internazionale come WADA, piuttosto che alle autorità nazionali, come invece era generalmente sin qui accaduto. (Su questo aspetto consiglio vivamente la lettura della bella intervista, tradotta da atleticalive.it, a Julia Stepanova).

7) La Russia non è dunque l’unico imputato. Sotto inchiesta c’è la IAAF e (potenzialmente) tutte quelle federazioni nazionali che hanno incentivato e coperto l’uso di pratiche dopanti, in primis quella keniana. In assenza di prove certe però concentriamoci sulla IAAF.

Secondo l’inchiesta di Seppelt – supportato dai colleghi del Sunday Times – analizzando i valori di un database relativo a controlli ematici sugli atleti d’élite fra il 2001-2012 un terzo di quelli saliti sul podio (circa 115 medaglie) aveva valori estremamente sospetti. Eppure relativamente all’atletica solamente l’1% dei test effettuati ha riscontrato positività.

Alla IAAF questi dati sono stati raccolti e i risultati sono noti, ma è stato deciso di non divulgarli. Invece di combattere il doping si è deciso di coprirlo. In questo senso l’atletica è almeno 10/15 anni indietro rispetto al ciclismo, la cui federazione internazionale – seppur non senza ambiguità – ha deciso di far emergere questo fenomeno anche a costo di un grosso danno d’immagine.

Perché la IAAF non faceva nulla? La risposta più semplice e genuina ci arriva dalla “pentita” Julia Stepanova: “Gli atleti dopati corrono più veloci. È possibile che i tempi più veloci creino mercato”. E il mercato che gira intorno all’atletica è in grande crescita. Gestire uno scandalo doping di queste proporzioni non sarà per la IAAF un’impresa semplice.

Per oltre 25 anni il senegalese Lamine Diack (erede del non certo moralmente irreprensibile Primo Nebiolo) ha gestito la IAAF in maniera estremamente corrotta e adottando nei confronti del doping una politica di laissez-faire. (Su “aTuttoCampo” ve ne avevamo già parlato) Inoltre per Diack e la sua cricca coprire il doping era occasione di lucro, come sembra chiaramente trasparire dalle indagini in corso.

Il nuovo presidente, l’inglese Sebastian Coe, eletto nell’agosto 2015 è pienamente consapevole che lo sporco non si può più nascondere sotto il tappeto. Ha fatto campagna elettorale promettendo di “costituire una commissione antidoping indipendente”. Per il momento sono solo parole e giornalisti britannici già lo incalzano ricordandogli il suo legame con l’ex presidente Diack (Qui la traduzione in italiano) e il suo ruolo di vicepresidente della IAAF.

8) La partita più importante si giocherà dunque in seno alla IAAF e sarà tutt’altro che politicamente neutra. Il passaggio da Diack a Coe ha fatto saltate le storiche alleanze e ora il mondo dell’atletica leggera è alla ricerca di nuovi equilibri diplomatico-sportivi.

Venerdì si riunisce la commissione esecutiva della IAAF che dovrà decidere le strategie future e cosa fare della Federazione russa, dopo che la WADA ne ha suggerito l’esclusione. A parole la posizione di Coe è rigida. I russi dovranno dare spiegazioni altrimenti la possibilità di sanzioni può diventare concreta. Ma è possibile che si tratti solo di una minaccia.

Coe deve mostrarsi integerrimo di fronte all’opinione pubblica occidentale (soprattutto nella sua componente anglosassone) contraria moralmente al doping, ma da fine politico qual è sa benissimo che per governare il consesso dell’atletica mondiale dovrà scendere a compromesso con figure che rappresentano federazioni che hanno sostenuto o coperto il “doping di squadra”.

A voler far i malpensanti – ma qui iniziamo a muoverci sul campo delle illazioni – non possiamo certo escludere a priori che la stessa federazione britannica sia immune da queste pratiche. Più di un atleta britannico, a partire dalla stella Mo Farah, ha subito accuse di doping. Insomma ci si muove su un terreno delicato e complesso, la pressione dell’opinione pubblica occidentale si scontra con gli interessi della IAAF, dei suoi membri, delle federazioni nazionali e soprattutto degli attori economici, la Nike su tutti.

Se l’Adidas ha giocato storicamente un ruolo di “eminenza grigia” nella FIFA, un ruolo analogo svolge l’azienda di Beaverton (Oregon, USA) per il mondo dell’atletica. La Nike non sponsorizza solo la federazione americana ma anche quella russa e keniana, e fra i suoi atleti ed ambasciatori ci sono molti ex dopati (Galtin è senza dubbio il più famoso).

Lo stesso Coe si trova in una posizione di conflitto d’interessi essendo un ambasciatore della Nike. Anche per questo il parlamentare britannico Damian Collins ha annunciato che chiederà a Coe di rinunciare a questa carica. Insomma se la WADA (e l’Interpool) vogliono veramente fare chiarezza non sarà facile visto il numero di attori in gioco.

Allo stesso tempo però il cambio al vertice della IAAF offre un’opportunità difficilmente ripetibile per promuovere un cambiamento, specie in virtù del fatto che – a parole – il neo Presidente della IAAF si è impegnato in tal senso.

9) Tornando al nocciolo della questione, le accuse presentate all’atletica russa dal report della WADA sono forti e le prove sufficientemente schiaccianti.

Non entro nel merito perché sono già stati spesi fiumi di inchiostro. (Per chi avesse voglia di leggersi l’intero report, questo è il link, per una sintesi si veda qui e qui). Peraltro, come dimostrato dall’assenza dei marciatori dai Mondiali di Pechino 2015 e dall’elevato numero di positività riscontrate nel recente passato, agli addetti ai lavori era da tempo noto che la Russia avesse un problema con il doping.

È chiaro che le continuità con il passato sovietico sono molte. Julia Stepanova, nella già citata intervista, lo dice con chiarezza: “la realtà è che la maggior parte dei tecnici in Russia proviene dall’Unione Sovietica, e (rispetto alla questione doping ndr.) sarebbe comunque impossibile cambiare i loro modi di vedere la situazione”.

Il simbolo di questa continuità è senza dubbio rappresentato da Valentin Balakhnichev. Il principale attore dello scandalo doping denunciato dalla WADA, è stato Presidente della Federazione atletica russa dal 1991 fino al 2015 quando si è dimesso a seguito delle accuse del documentario dell’ARD.

Balaknichev, ex saltatore ad ostacoli, incarna alla perfezione il legame tra sport sovietico e russo poiché dal 1978 al 1984 è stato l’allenatore della squadra sovietica di atletica. Con la fine della “Cortina di ferro”, oltre ad aver svolto un ruolo di primissimo piano nelle istituzioni sportive e governative russe ha rappresentato un punto di riferimento nella IAAF, di cui è stato addirittura tesoriere; ruolo delicato da cui ha dovuto recentemente dimettersi.

Nonostante l’evidente influenza del passato sovietico non credo sia corretto parlare di “doping di Stato”. Forse sarebbe più corretto parlare di “doping tollerato e coperto dallo Stato”, tutt’al più “incentivato dallo Stato”. Nel senso che – citando ancora la Stepanova – “L’obiettivo del nostro Stato è quello di dimostrare che la Russia è il più grande Paese ed è meglio di qualsiasi altro paese al mondo. In ogni campo.

Il Presidente, il Ministero, l’agenzia antidoping: tutti sappiamo che l’obiettivo finale è quello di vincere medaglie”. Il programma però non è più imposto dal Cremlino ma suggerito dalle singole Federazioni, alle quali è richiesto di raggiungere risultati ambiziosi. Se gli atleti vogliono essere competitivi devono entrare nel programma. Nulla di così diverso da quanto avveniva (avviene?) nelle squadre di ciclismo, o denunciato da Donati nel suo Lo Sport del Doping.

In questo modo la responsabilità primaria è degli atleti, mentre le Federazioni, il Ministero dello Sport e tutti quegli enti – fra cui i servizi segreti – che contribuisco a nascondere le pratiche illecite possono farla franca (a meno di pentiti). È infine difficile parlare di “doping di stato” di fronte a casi di lampante corruzione come quelli che hanno coinvolto Balakhnichev e l’allenatore federale Alexei Melnikov. I due avevano infatti sviluppato un sistema (più capitalista che comunista) per estorcere denaro agli atleti in cambio del loro aiuto per nascondere le loro positività.

Di fronte alle accuse avanzate dalla WADA la strategia russa sembra chiara. Dopo un primo tentativo di rigettare le accuse parlando di “complotto occidentale” – una mossa volta principalmente a saldare il fronte interno – il linguaggio è cambiato e si è fatto più accomodante.

L’obiettivo primario è evitare una squalifica che rischierebbe di avere un impatto anche extra-sportivo. Putin, che non sembra aver problemi a sacrificare le figure più scomode per salvare il prestigio e l’immagine del proprio Paese, ha dichiarato “si indaghi, ma le punizioni siano individuali”.

Il Ministro dello Sport Vitaly Mutko – che ha accettato le dimissioni del capo del laboratorio antidoping di Mosca, Grigory Rodchenkov – si è detto disponibile a nominare al suo posto un esperto straniero, ha offerto alla Wada una Road Map per risolvere la crisi e soprattutto ha cercato di sviare le accuse nei suoi confronti annunciando “procedimenti penali nei confronti degli atleti risultati positivi al doping”.

Similmente la Federazione russa di atletica ha lavorato di diplomazia sostenendo che i suoi rinnovati vertici condividono i valori della IAAF, continueranno a combattere il doping e promettendo di inviare alla IAAF un’adeguata replica al report della WADA. Significativamente il comunicato si conclude con una frase che sintetizza alla perfezione questa strategia: “Una sincera e onesta collaborazione in questo campo può essere molto più efficacie che qualsiasi tipo di sospensione e isolamento”.

10) Da pagina 71 a 79 nel report della Commissione della Wada c’è un passaggio interessante che riguarda l’uso politico dello sport a livello nazionale e internazionale.

Da questo punto di vista Putin non deve certo prendere lezioni da nessuno, sia per quanto riguarda la cura della propria immagine di sportivo (specie in funzione interna), sia per l’investimento fatto dalla Russia sotto la sua presidenza nell’utilizzo dello sport come strumento di soft power. (Su questi aspetti rimando all’eBook collettivo La Russia di Sochi 2014 e all’articolo Il senso di Soči per la neve)

Fin dalla sua ascesa nel 2000 Vladimir Putin ha infatti individuato nello sport d’alta competizione un importante strumento politico. Lui stesso ha dichiarato che “Le vittorie sportive sono più efficaci di centinaia di slogan politici per rafforzare l’identità nazionale”.

In sintesi, la strategia sportiva di Putin è sostanzialmente volta a un triplice obiettivo: (1) rafforzare l’immagine e il prestigio internazionale della Russia; (2) definire le priorità dello sviluppo regionale e distribuire risorse fra gli oligarchi amici; (3) consolidare il consenso interno.

L’immagine “muscolare” del Putin hockeista o judoka, è andata di pari passo alla ricerca dei successi sportivi e all’organizzazione di grandi eventi sportivi internazionali. Il periodo che va dal 2007 al 2018 può essere infatti definito il “decennio d’oro dello sport russo” in quanto il Paese ha organizzato ed organizzerà un numero davvero importante di eventi tra cui le Olimpiadi invernali, le Universiadi e i Mondiali di atletica, nuoto, hockey su ghiaccio e calcio.

Lo sport serve a Putin per promuovere una “certa idea della Russia” che dev’essere vincente ma non dopata. Ecco perché questo scandalo, che è prima di tutto sportivo, sta avendo anche grosse implicazioni politiche. Nel momento in cui si legano i successi sportivi a quelli del Paese anche i fallimenti sportivi possono portare a un ritorno d’immagine negativo.

11) In tutto questo cosa c’entrano gli Stati Uniti? Apparentemente poco e niente. Il peso degli Stati Uniti nella IAAF non è secondario ma nemmeno immenso.

Le piste di atletica hanno smesso da tempo di essere un campo di battaglia della Guerra Fredda. Kenya, Giamaica, Gran Bretagna, Etiopia, Cina e Germania sono antagonisti seri per entrambe le due ex superpotenze.

A due giorni dalla pubblicazione del report Obama non ha ritenuto necessario intervenire in prima persona, il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest, rispondendo a una domanda, si è limitato a una stoccatina sottolineando che: “non ci sono motivi per mettere in dubbio i risultati dell’indagine della WADA”.

Insomma l’amministrazione Obama – anch’esso molto attento nello sfruttare politicamente lo sport – si è limitata ad approfittare della finestra d’opportunità apertasi con la crisi del doping russo per ribadire la centralità delle istituzioni sportive internazionali (tutte o quasi a predominio culturale occidentale). Di qui a parlare di ritorno della Guerra fredda nell’atletica però ce ne passa…

12) In conclusione ci troviamo di fronte a un quadro complesso che non si può descrivere con vecchie categorie da Guerra fredda. Cosa succederà venerdì? La federazione sarà squalificata e gli atleti russi non potranno partecipare a Rio2016? Non abbiamo la palla di vetro per prevedere il futuro.

Però accade raramente che una Federazione nazionale venga squalificata da una Federazione internazionale. Il primo motivo è che così facendo quest’ultime perderebbero la propria universalità di cui vanno gelosamente fiere. Il secondo è che per coerenza, di fronte a una situazione analoga di “doping di squadra”, bisognerà adottare il medesimo criterio. La decisone comunque non spetta alla WADA – da questo punto di vista “una tigre senza denti” – che ha solo suggerito la misura, bensì alla IAAF, sul cui destino pesa anche l’inchiesta della magistratura francese e l’indagine della WADA sulle 12mila analisi ematiche compiute ma nascoste dalla stessa IAAF dal 2001 al 2012.

Vinceranno i “falchi etici”, ferventi difensori dell’anti-doping, o le “colombe compromesse” alla ricerca di un compromesso? Sicuramente si è già davanti a un bivio, e Sebastian Coe si gioca già molto del proprio prestigio personale. Non è pertanto da escludere una squalifica temporanea e simbolica per qualche mese invernale.

A sua volta difficilmente la Russia porterà avanti una politica di scontro frontale contro istituzioni sportive (IAAF in primis) di cui fa parte. Probabilmente gli elementi più compromessi (atleti, medici, dirigenti e chissà forse anche politici) saranno allontanati dalle posizioni di comando. Qualcuno subirà pene esemplari, altri spariranno solo momentaneamente. Quasi sicuramente, Putin cercherà di presentarsi come colui che ripulirà lo sport russo dalle “mele marce” riportandolo al successo. Il danno d’immagine però c’è stato.

Ci sarebbe infine da fare un commento sulle ambiguità dell’antidoping nello sport… ma sarà per un altro articolo.

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