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Così perdiamo la Turchia

Dopo l'attentato di Ankara, il caos rischia di compromettere la fragile democrazia anatolica

Di Livio Ricciardelli
Pubblicato il 11 Ott. 2015 alle 20:34

Gli oltre 120 morti nell’attentato alla stazione di Ankara
creano una situazione di totale sconquasso in Turchia, un paese già alle prese
(a partire dal giugno di quest’anno) con uno scenario del tutto inedito dal punto di vista politico. Scenario che rischia di compromettere del tutto gli elementi di democrazia ancora presenti all’interno del paese.

Se ci si pensa bene le elezioni politiche del 2002 hanno
contrassegnato un radicale cambio di passo per il paese anatolico: dopo anni di
ardite e poco lungimiranti sperimentazioni, l’islamismo politico si strutturava
nel sistema assumendo quel ruolo di “Partito della Nazione” che per anni ha
contrassegnato il destino della sinistra kemalista.

Da qui le vittorie di Erdogan alle legislative (del 2002,
2007 e 2011), le varie vittorie referendarie tese a modificare la costituzione,
l’elezione di Abdullah Gul nel 2007 a Presidente della Repubblica e quella (a suffragio universale) dello stesso
Erdogan nel 2014.

Col voto di giugno, invece, per la prima volta dopo decenni
nessun partito ha ottenuto la maggioranza assoluta. Nonostante il partito presidenziale Akp potesse optare per un’alleanza con chiunque, la peculiarità del movimento
islamista non ha consentito la nascita di alcuna coalizione di governo. Anche perché ciò avrebbe comportato per Erdogan la necessità di trovare dei compromessi con gli avversari sulle tanto agognate riforme costituzionali.

Da qui
la convocazione di nuove elezioni il 1 novembre. Ma, soprattutto, da qui una
spirale di avvenimenti che hanno letteralmente sconvolto il paese.

In primo luogo l’acuirsi dello scontro tra Turchia e Stato
Islamico
: dopo parecchie titubanze (basti pensare alla problematica dei
profughi) la Turchia ha seriamente rivisto il suo impegno sul fronte orientale con bombardamenti sull’Iraq e
sulla Siria. Un metodo classico della politica per cimentare il potere in
patria: palesa il nemico esterno, unirai il tuo popolo.

Da qui bombardamenti a
raffica all’esterno e una feroce propaganda all’interno tesa, tra le altre cose, a dipingere i
curdi alla stregua di terroristi.

Non c’è differenza tra Pkk, curdi laici di Kobane e i
seguaci di Demirtas: votate Akp, l’unico baluardo alla tenuta del sistema.

In secondo luogo il lancio di una vera e propria “strategia della tensione” tesa a sbloccare lo stallo politico interno. In quest’ottica può essere visto l’attentato di sabato 10
ottobre.

Le autorità turche hanno pubblicamente accusato l’Isis di
essere il responsabile dell’attentato. Non siamo ad “Un Giorno in Pretura” e
non abbiamo elementi per calibrare la colpevolezza dei vari poli. È innegabile, comunque, che il timore nei confronti di attentati provenienti dall’estero
(come quelli che si rifanno allo Stato Islamico di Iraq e Levante) dovrebbe
teoricamente rafforzare il partito al governo (a meno che il governo non venga sbugiardato platealmente, chiedere a Mariano Rajoy per maggiori informazioni).

In questo senso, la chiave di tutto sta nel riproporre Ahmet Davutoglu alla guida del partito di governo Akp: raffinato
intellettuale, già apprezzato ministro degli esteri, l’attuale primo ministro
non ha dimostrato lo stesso carisma del suo predecessore (basta guardare sulla rete Trt un suo
comizio serale dalla sede del partito). Nonostante tutto, è stato
riproposto per le prossime elezioni.  

Un’immutabilità che però si confronta con un sommovimento attorno alle forze politiche. Tra
attentati, bombardamenti e sospetti. Insomma: il fatto che Erdogan non proponga
alcuna modifica alla sua proposta politica, avvalora la tesi di un suo
interessamento a creare tensioni all’interno della società anatolica. Tensioni che, secondo le sue previsioni, dovrebbero palesarsi in un rafforzamento del
fronte presidenziale.

È interessante comunque notare una dinamica di seria
contraddizione in un quadro così siffatto: per anni il fronte islamista, non a
torto, ha evidenziato come i governi laicisti del passato avessero sospeso
alcune elementi della democrazia turca. Rifacendosi ovviamente all’abuso del ruolo
di garanzia che l’esercito nazionale ha svolto nei confronti della Costituzione
kemalista dal ’23 ad oggi.

Se la teoria della “strategia della tensione” favorita da
Erdogan fosse confermata, ci troveremmo di fronte a un antico timore della
comunità internazionale: in uno scenario post-Guerra Fredda, agli occhi della Casa Bianca, certe “inadempienze” della democrazia turca  (come di altri Paesi, si pensi solo al Sud America ed al Sud Est Asiatico) potevano essere colmate. Erdogan, dunque, poteva anche essere sostenuto pur non essendo in linea con la storico filo-atlantismo turco degli ultimi decenni.

Ma sino a oggi rappresenta un pericolo opposto rispetto ai
laici. Opposto, ma pur sempre un pericolo. 

E il governo non ha più l’esercito del paese come
proprio braccio armato, ma i terribili servizi segreti del Sultano.

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