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Chester Nez, l’ultimo code talker

È morto l'ultimo dei ventinove Navajos utilizzati per mandare messaggi cifrati durante la II Guerra Mondiale

Di Ernesto Clausi
Pubblicato il 5 Giu. 2014 alle 23:14

Quando resistevano agli assalti della cavalleria si servivano di nuvole fumo per comunicare messaggi in codice. Le tribù indiane hanno sempre avuto una naturale attitudine alla comunicazione cifrata. Lo sapevano bene le Forze Alleate, che se ne servirono per inviare messaggi che, mai decifrati dal nemico, hanno giocato un ruolo decisivo nella vittoria della seconda Guerra Mondiale.

Chester Nez è morto ieri a 92 anni in ad Albuquerque, nel New Mexico. Era l’ultimo sopravvissuto dei ventinove Navajos reclutati dal corpo dei Marines per sviluppare un codice basato sul loro linguaggio, che i nemici giapponesi non potessero decifrare. Il risultato fu eccellente e contribuì a salvare la vita a migliaia di soldati americani. La lingua parlata dai Navajos infatti era in uso soltanto nel Southwest degli Stati Uniti, praticamente priva di forma scritta e parlata da non più di trenta persone al di fuori della tribù Navajo. L’utilizzo di questa lingua per l’invio di messaggi da radio e postazioni telefoniche lungo la costa dell’Oceano Pacifico durante il conflitto fece di questo ristretto gruppo di uomini degli eroi.

Fino al 1968 il loro lavoro  è rimasto segreto. Solo quando la Difesa statunitense ha decretato la fine dell’utilizzo di questi codici, agli indiani è stato riconosciuto pubblicamente il contributo decisivo apportato durante la Guerra. Il contenuto dei messaggi era di ogni tipo: relativo a munizioni, cibo, equipaggiamento emedico e forniture logistiche da inviare in prima linea. Si poteva segnalare la posizione delle truppe nemiche, e comunicare il movimento delle proprie. Il sistema adottato era complicatissimo. Si iniziò con lo scegliere una parola inglese di uso comune (un’animale, un oggetto) in sostituzione di ogni lettera dell’alfabeto. Poi si passava a selezionare delle parole in lingua Navajo facilmente comprensibili se pronunciate via radio e ben distinte le une dalle altre, e le si abbinava alle corrispondenti inglesi. Cosi ad esempio la lettera A diventava “red ant”, ovvero formica rossa, ma in codice si utilizzava il termine Navajo “wol-la-chee”. “Chay-Da-Gahi”, che vuol dire tartaruga, indicava i carri armati. E l’America era la mamma, “Ne-he-mah”. Successivamente si aggiunsero due parole Navajo in più per ogni lettera, che poteva cosi essere cifrata in tre modi differenti, dando luogo a una combinazione impossibile da essere interpretata per il nemico.

Il Navajo Code Talkers’ Dictionary comprendeva settecento parole. Battezzato con questo nome dai missionari che lo presero con loro affinchè frequentasse la scuola, Chester viene reclutato dalle forze armate a Tuba City, mentre frequenta il secondo anno delle superiori. Fa parte di un primo gruppo, selezionatissimo, di 29 Navajos. Il gruppo sarà in realtà composto da 32 indiani, poichè ad essi si aggiunsero tra Navajos già inquadrati nei Marines. Alla fine del conflitto saranno quattrocento gi indigeni utilizzati per la cifratura e l’invio di messaggi. Tredici di essi moriranno. Inseriti nel reparto comunicazioni come specialisti, impararono a usare il codice morse, il “blinker”, un sistema con cui si lanciano messaggi tra le navi attraverso l’uso di luci/lampeggianti, e altre tecniche.

Nel suo libro Chester Nez ricorda il primo messaggio inviato: con il vecchio sistema “Shackle” si impiegavano in media quattro ore per l’invio. Con il codice dei Navajos l’operazione durò appena due minuti e mezzo. Da allora si proseguì su questa strada. Il successo fu talmente straordinario che a questa elitè delle Forze Alleate fu richiesto uno sforzo oltre ogni limite. Chester non ricorda un solo momento di pausa, o un giorno di vacanza. Al termine del conflitto, dopo aver partecipato con le stesse mansioni anche alla Guerra di Corea, dovrà sopportare un lungo processo di riabilitazione psichica per i traumi vissuti. Cinque mesi in ospedale a fare i conti con il disturbo post-traumatico da stress e incubi tremendi.

Il Presidente della Navajo Nation, Ben Shell, ha ordinato di porre le bandiere «in memoria di un uomo che ha amato la sua nazione e ha eroicamente contribuito a difenderla». Lo scorso Novembre l’American Veterans Center aveva consegnato a Nez l’Audie Murphy Award per il coraggio e il valore dimostrati. Il lavoro svolto dagli indiani durante il conflitto è ricordato nel film “Windtalkers”. Eroi che si servirono del vento e delle loro tradizioni per comunicare. Eroi della parola.

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