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L’America Latina sta tornando di centro-destra

Dopo un decennio di ribalta socialista in gran parte dell'America Latina, oggi assistiamo al ritorno dei conservatori nel continente sull'onda della crisi economica

Di Tiziano Rugi
Pubblicato il 18 Apr. 2016 alle 12:43

Gli ultimi mesi del 2015 e i primi mesi del 2016 sono stati caratterizzati da un periodo di radicale cambiamento nella politica dell’America Latina. Negli anni Duemila, Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia e Cile sono stati governati da partiti socialisti arrivati al potere dopo la disastrosa esperienza neoliberista tra gli anni Ottanta e Novanta.

Approfittando del basso prezzo delle materie prime in Brasile e Bolivia, e delle immense riserve di petrolio in Venezuela, i governi socialisti nell’ultimo decennio sono stati capaci di garantire un importante sviluppo economico, riducendo le disuguaglianze sociali e liberando milioni di persone dalla condizione di povertà assoluta, laddove quelli conservatori in passato non ci erano riusciti.

La crisi economica ha tuttavia messo in discussione il sistema, innescando una crisi politica che nel caso di Brasile e Venezuela rischia oggi di sfociare in una profonda crisi istituzionale. Il crollo del prezzo delle materie prime ha avuto ripercussioni sui bilanci dei governi, mentre la spesa pubblica rimane invece ancora elevata per finanziare il welfare di stato. 

I governi hanno così dovuto attuare misure di austerità impopolari oppure si sono indebitati pericolosamente. Inefficienza e corruzione nell’apparato statale, se tollerati in passato in piena crescita economica, oggi vengono puniti dagli elettori in un momento di profonda recessione.

Ora, con il declino quasi definitivo di quei governi socialisti, assistiamo a un ritorno del centro-destra in America Latina. Tra il 2015 e il 2016 i conservatori hanno vinto tutte le tornate elettorali (compreso il Perù, ma in questo caso il paese era già governato dal centro destra) e nelle nazioni dove non era previste il voto sono esplose proteste di piazza.

Alcuni analisti iniziano a interrogarsi sulla fine, o meno, di un modello sostenibile per l’intero continente.

LA SITUAZIONE PAESE PER PAESE 

– CRISI ECONOMICA 

Venezuela: Il 2015 è stato l’annus horribilis per il Venezuela. Il crollo del prezzo del petrolio ha tolto al governo l’unica fonte di introiti utilizzata per mantenere il settore pubblico, nazionalizzare le imprese, difendere la moneta nazionale e controllare le importazioni.

Il Pil è crollato del 10 per cento. Il deficit è schizzato al 20 per cento del Pil, finanziato stampando moneta. L’inflazione è così arrivata al 200 per cento. Mancano beni di prima necessità e si è sviluppato un fiorente mercato nero parallelo in dollari. A questo si aggiunge una corruzione endemica, soprattutto tra i militari.

Le proteste in piazza della popolazione esasperata sono sfociate nella storica vittoria alle elezioni parlamentari della coalizione di centro destra Unità democratica, la prima in 16 anni alle elezioni parlamentari. Il presidente Nicolas Maduro mantiene ancora il controllo del potere esecutivo e giudiziario, ma adesso le opposizioni anti-chaviste possono influenzare la gestione dell’economia.

Bolivia: A febbraio anche il presidente Evo Morales ha subito una inaspettata sconfitta elettorale al referendum per una revisione costituzionale per introdurre la possibilità di ricandidarsi per un quarto mandato. Gli elettori hanno temuto una deriva autoritaria, nonostante Morales resti un leader amato.

È stato il primo presidente indigeno e ha dato al paese un governo stabile, si è impegnato nella difesa dei diritti degli indigeni e nella riduzione delle disuguaglianze (l’indice di povertà assoluta è sceso dal 38 per cento al 17 per cento della popolazione). Tuttavia la popolarità di Morales è stata erosa recentemente da alcuni scandali.

Una sua ex amante, Gabriela Zapata, da cui Morales ha ammesso di aver avuto un figlio, ricopre una posizione di rilievo nella società di ingegneria cinese Camc, che ha ottenuto più di 500 milioni di dollari in contratti con il governo boliviano e l’opposizione ha parlato di conflitto di interesse. Inoltre, accuse nella gestione di un fondo di sviluppo statale hanno investito alti funzionari del partito di Morales.

CRISI ISTITUZIONALE

Crisi economica, politica e istituzionale si intrecciano in Brasile. Il paese è in piena recessione, la peggiore degli ultimi 25 anni, e durante il 2015 l’economia si è contratta del 3,8 per cento e l’inflazione ha superato il 9 per cento.

Il governo socialista di Dilma Rousseff ha dovuto attuare alcune misure di austerità impopolari che hanno creato scontento nella popolazione ma non sono riuscite a colmare le falle nel bilancio pubblico a causa di sprechi e corruzione. Tre milioni di persone domenica 13 marzo sono scese in strada in 150 città del paese per chiedere le dimissioni della presidente e la coalizione di governo sta vacillando.

Domenica 17 aprile la camera dei deputati del Brasile ha votato per la messa in stato di accusa di Rousseff accusata di aver manipolato i conti pubblici per nascondere il deficit di bilancio brasiliano e di aver aperto conti bancari all’estero a nome del governo ma di sua proprietà. 

Il Partito dei lavoratori di Rousseff da mesi si trova ad affrontare situazioni difficili, diversi alti funzionari del Partito dei lavoratori sono stati arrestati in connessione con lo scandalo Petrobras. Un terremoto giudiziario che finora ha coinvolto circa 700 alti funzionari. Anche l’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silvamentore politico di Rousseff, è stato travolto dall’inchiesta anti-corruzione con l’accusa di riciclaggio di denaro.

Rousseff ha annunciato l’intenzione di conferire un incarico ministeriale a Lula. Un tentativo, secondo le opposizioni, di sottrarlo alla giustizia: come membro del governo non potrebbe essere processato da un tribunale ordinario, ma solo dalla Corte Suprema.

Questo, di fatto, gli eviterebbe la prigione poiché il procedimento in questo foro richiede anni. Ma la Corte Suprema ha sospeso la sua nomina a Capo di Gabinetto aprendo la strada a uno scontro tra esecutivo e giudiziario.

INCOGNITA ARGENTINA

In Argentina la vittoria alle elezioni presidenziali di novembre 2015 del conservatore Mauricio Macrì ha messo fine al governo di Cristina Fernandez Kirchner e a un ciclo di governo da parte della sinistra peronista in Argentina durato 12 anni, che la maggioranza degli elettori ha ritenuto responsabile a causa di scelte dettate dall’ideologia della recente crisi economica.

E il cambiamento nella politica economica si annuncia radicale. Il nuovo governo sta lavorando per l’accordo con i creditori internazionali per rimborsare i Tango bond dopo il default nel 2001 e ha eliminato i controlli di capitale che limitavano l’acquisto di dollari, con l’obiettivo di aprire nuovamente l’Argentina ai mercati finanziari internazionali.

Nonostante il programma di governo preveda riforme impopolari come la svalutazione della moneta, la liberalizzazione dei tassi di cambio, del commercio e delle tariffe energetiche, di alzare i tassi di interesse e licenziare migliaia di lavoratori del settore pubblico, è stato premiato dagli elettori.

A convincere gli argentini sono stati soprattutto i suoi appelli alla trasparenza e all’efficienza, ma la luna di miele potrebbe finire presto. L’accordo per il rimborso dei Tango bond si annuncia costoso finanziariamente e politicamente. L’opposizione peronista lo accusa di cedere al ricatto dei creditori internazionali e paragona le sue politiche neoliberiste a quelle di Carlos Menem, che sfociarono nel default argentino.

Inoltre, se aprirsi ai mercati finanziari permette nel breve periodo al governo di indebitarsi per intervenire sull’economia e attuare le riforme, la congiuntura non è delle migliori. Macrì ha ereditato dal precedente governo un deficit al 7 per cento, riserve di valuta straniera ai minimi e un’inflazione al 30 per cento. Il prezzo della soia, il principale bene di esportazione è crollato, mentre il Brasile, terzo partner commerciale, è in recessione.

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