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Alabama Monroe

Una fiaba senza lieto fine, un diamante da non lasciarsi sfuggire

Di Blog Fandango
Pubblicato il 16 Mag. 2014 alle 13:04

Alla premiazione degli Oscar ha dato filo da torcere a La grande bellezza il pluripremiato film Alabama Monroe – una storia d’amore  del  regista belga Felix Van Groeningen.

Dentro una squinternata e confortevole roulotte tra le nebbiose praterie del Belgio è accampato Didier (Johan Heldenbergh), ribelle musicista country, titanico e sregolato, che un bel giorno incrocia, per caso, il viso luminoso e il corpo tappezzato di tatuaggi di Elise (Veerle Baetens, vincitrice dell’European film award) e se ne innamora. Tra i due, arde il fuoco iniziatico di un’intensa passione, che si alimenta nella droga di sguardi magnetici e di una fatale attrazione e che infarcirà le irresistibili esibizioni della “bluegrass band”, di cui entrambi fanno parte.

Dall’unione dei due – come gli Adamo ed Eva dei giorni nostri, in jeans e molto indie – nasce la dolce Maybelle, bimba vispa, dalle labbra color fragola,  un’anima soul. Ma l’apparire di alcuni ematomi sul corpo della piccola e un’anomala stanchezza sono campanelli d’allarme che rivelano una grave malattia. Inizia così la lotta e il calvario di una famiglia che tenta invano di resistere alla forza squassante di una tragedia piombata troppo presto sul loro piccolo Eden felice. Abbattimento e coraggio iniziano a rincorrersi senza sosta in una vana lotta contro il tempo, che muta repentinamente la gioia e la spensieratezza in un’incombente consapevolezza della morte.

Elise e Didier reagiscono diversamente all’amaro ghigno dell’inizio di una fine: la prima appigliandosi alla fede, il secondo a una lucida laicità. Una strenuante lotta per la vita che corrode pian piano i sorrisi, l’unione, le forze, mentre i genitori esperiscono sulla propria pelle l’intensità di una sofferenza devastante e indicibile. Fino all’ultimo, e nonostante tutto, i nomi di fantasia (Alabama e Monroe) usati nella nuova vita, dimostreranno – pur nella tragedia – l’abbagliante potenza di un amore profondo. Scorre impetuoso e ostinato il fiume della vita, sembra suggerire il film, che smuove a piacere catarsi e tenebre, gioie e dolori, gonfio di grazia e orrore, libertà e condanna, amore e morte, levigando i ciottoli del tempo fino alla loro sublime distruzione. È così che la piccola Maybelle volerà via, come gli uccelli sulla “terranda” della casa.

Un volo, e poi il tonfo, inesorabile, repentino, crudele. Melodramma dal ritmo spigliato a suon di banjo, mandolini e contrabbasso in perfetto stile underground, il film emoziona, alternando momenti tristi e gioiosi e conducendo in un viaggio che inceppa la linearità e confonde i piani temporali del racconto. L’armonia della musica lenisce ferite e traumi e unisce in un’irresistibile danza da cui sprizza gioia di vivere e desiderio rinnovato di lotta. È la dimensione psichica della visionarietà e della percezione a emergere dalle immagini finali rese con un effetto non naturalistico, ma portavoce di un dramma che s’inscena nell’interiorità dei personaggi.

Gli strali di Didier contro la Presidenza Bush a sostegno indiscriminato dei movimenti “pro-life”, aumentano la complessità di un film che è anche un manifesto sulle contraddizioni dell’America e contro il conservatorismo delle destre, alimentato dalla religione. È una serrata denuncia contro la politica che, per bieco interesse, mette bocca sulla concreta fragilità della vita individuale. Il film rapisce per la bellezza ipnotica della musica, che, come una ninna-nanna, dà conforto e tiene dolcemente per mano, ancorando saldamente nel maremoto psichico di un epos quotidiano. L’infanzia e l’irruzione della maturità, la fede e la caduta dolorosa delle illusioni tracciano una parabola esistenziale universale, che racconta dell’incertezza insopprimibile e della densità chiaro-scurale di cui son piene le vicende umane.

La macchina da presa – volteggiando, in punta di piedi o con rispettosa discrezione – si rabbuia e si rallegra insieme con i suoi personaggi. Avere il “country sottopelle, nei geni, nel sangue” è ritmo apotropaico nelle vene in grado di esorcizzare la sofferenza e allentare la stretta del buio. Il tatuaggio non è che fiamminga incisione nel dettaglio di una memoria felice sul corpo della vita. Una fiaba struggente senza lieto fine, innervata dalla concitata purezza del bluegrass, che racconta di un dolore consumato fino all’ultimo. Un elogio senza giudizio della libertà individuale, un diamante da non lasciarsi sfuggire.

 

di Rosalinda Occhipinti

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