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Aiuto! E’ tornato il Concilio

Papa Francesco fa ripartire il Concilio, anche se per molti sarà difficile dimenticare le delusioni degli ultimi decenni.

Di Padre Kizito
Pubblicato il 1 Dic. 2013 alle 08:23

Evangelii Gaudium, l’esortazione apostolica di papa Francesco pubblicata pochi giorni fa, è la conferma che il Concilio Vaticano II, con le sue grandi aperture e visioni, è tornato al centro della vita della Chiesa. Questo è per me, missionario di periferia, il significato complessivo del documento. Il Vaticano II deve essere vissuto, non studiato, analizzato, e poi rimesso in archivio, come si e spesso fatto nei quasi cinquant’anni che sono trascorsi dalla sua chiusura. Papa Francesco, il primo Papa che non è stato presente al Concilio, come invece lo sono stati in vesti diverse i suoi immediati predecessori, ne è un autentico figlio.

 Papa Francesco ha rimesso in movimento il Concilio. Non lo nomina in continuazione, ma non ce n’è bisogno, perché ogni sua frase ne è ricca di rimandi. Cosi come non fa continuamente citazioni evangeliche e bibliche, ma le sue azioni più che le sue parole evocano continuamente al Vangelo.

 Probabilmente molti fedeli e molti preti della mia età, quelli che da giovani adulti e giovani preti hanno vissuto gli anni straordinari del dopo-Concilio, ancora stentano a crederlo. Molti non si sentono preparati a ripartire. Bisogna dirlo, troppe sono state le delusioni.

 Mentre gli apologeti di professione, i missionari da scrivania, i teologi da salotto, i testimoni di se stessi, si affannano a spiegarci le parole e i gesti del Papa (il quale non ha proprio bisogno di interpreti), quelli che si sono tenuti in disparte, i laici e i preti che negli ultimi decenni si sono impegnati a portare avanti le linee conciliari quasi nascostamente, stanno col fiato sospeso ad ascoltare Papa Francesco che parla di uscire, di rischiare, di non temere i richiami del Sant’Uffizio, ed hanno nel cuore un misto di entusiasmo e di cinismo. Finalmente sentiamo un Papa parlare cosi! È il Papa che sognavamo da anni. Ma durerà? E, sopratutto, avremo ancora le forze per rimetterci in strada?

 Per me le ultime speranze di poter vedere nel tempo delle mia vita un vero profondo cambiamento nella vita della Chiesa si erano quasi spente dopo il primo Sinodo Africano nel 1994. I migliori teologi africani esclusi e poi gradualmente rimossi dell’insegnamento nei seminari e nelle facoltà teologiche. Ogni tentativo serio di inculturazione definitivamente archiviato, sia pur dopo aver accettato al Sinodo che l’inculturazione è una priorità. Un susseguirsi di nomine vescovili per personaggi scelti per un’ortodossia assoluta e la prudenza, anzi l’immobilismo, paralizzante.

 Chiesi un’opinione sul Sinodo Africano al cardinal Martini, mi disse laconico: “Ormai i Sinodi sono diventati un modo per livellare tutti i vescovi sul minimo comun denominatore”. Alcuni missionari che erano stati attivi in Africa nella promozione del laicato, nel far crescere nella chiesa uno spirito di co-responsabilità e collegialità, scomparvero dalla scena, e uno di loro mi confidò con amarezza: “Non c’è spazio. Si può fare qualcosa di innovativo senza incorrere in sanzioni ormai solo nell’ambito dell’impegno sociale, ma a condizione che sia mascherato da attività caritativa tradizionale”. Per anni abbiamo visto preti impegnati in nuovi ambiti pastorali bollati come teste calde ed emarginati. La creatività pastorale metodicamente punita e il supino adeguamento alle norme metodicamente premiato.

Nei miei ricordi un sorriso pieno di speranza, quello di Bernhard Haring, il grandissimo teologo moralista che aveva riformato la teologia morale nella seconda metà dello scorso secolo, il cui insegnamento spesso oggi riecheggia nelle parole di papa Francesco, e che fu emarginato e alla cui morte il quotidiano vaticano non aveva giudicato valesse la pena di dedicare una riga. A un amico che nel 1994 gli chiedeva come vedesse il futuro della Chiesa, rispondeva con la sorridente fermezza che gli era consueta “Non preoccupatevi. Tutto il ciarpame che maschera il volto luminoso della chiesa di Cristo crollerà presto come un castello di carte”.

 Ecco, adesso è arrivato un Papa che chiede che si preghi per lui, che non si sente giudice ma pastore e fratello, che vuole una Chiesa meno preoccupata della conformità alla dottrina e più capace di attenzione ai poveri, di coraggio per uscire da se stessa, di capacità di riformarsi per adeguarsi – anche il papato – sempre di più al ruolo di servizio che le è proprio. Che vuole rimettere Cristo al centro.

Ma saremo noi anziani preti ancora capaci di credere “nella rivoluzionaria natura dell’amore e della tenerezza”? Saremo capaci di ripartire? Saremo capaci di seguire questo anziano e giovanissimo Papa?

 

 

 

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