L’obesità non è una colpa, ma una malattia. Sono diverse e importanti le conseguenze sanitarie, viste le tante patologie ad essa correlate, e sociali, come una forte stigmatizzazione che impatta sulla salute mentale dell’individuo, collegate all’obesità. Ne abbiamo parlato con il professor Rocco Barazzoni, già presidente della Società italiana obesità (Sio) e associato di Medicina Interna del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Trieste.
Che cos’è l’obesità?
«L’obesità di per sé è una malattia. Chi la sviluppa ha delle alterazioni patologiche, soprattutto a livello neuroendocrino, per cui la regolazione dell’appetito e della spesa di energia non sono ottimali. Non è quindi in alcun modo una colpa o una responsabilità individuale del paziente. Ciò è stato tra l’altro appena riconosciuto dal nostro Parlamento, che ha approvato una legge che stabilisce formalmente che l’obesità è una malattia cronica e ne inserisce le prestazioni nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea)».
Quali sono le principali patologie correlate all’obesità?
«L’obesità è anche un fattore di rischio per molte altre patologie. Secondo alcuni studi sono più di 200 le malattie e complicanze correlate all’obesità. Tra le principali: il diabete, in particolare quello di tipo 2; malattie cardiovascolari; infarto; ictus; alcune neoplasie; insufficienza renale, respiratoria e cardiaca; patologie dell’apparato osteoarticolare e del fegato; infertilità. In generale possiamo dire che tutti gli organi rischiano di essere intaccati. L’obesità, insomma, è una malattia sistemica, che impatta notevolmente su tutto il sistema sociosanitario. Senza dimenticare quanto incide anche sulla sfera psicologica».
Tra i fattori che la causano, quanto contano le abitudini alimentari e lo stile di vita e quanto la genetica?
«L’obesità è esplosa negli ultimi 30-40 anni ed è tipica dei Paesi occidentali, anche se recentemente si sta diffondendo anche in zone del pianeta in forte sviluppo, come aree del Medio Oriente o del Sud-Est asiatico. La crescita di questa malattia è legata al cambiamento dello stile di vita, con la diffusione massiccia di cibi ricchi di calorie e poco spazio dedicato all’attività fisica. Ma non tutti diventano obesi. Il punto cruciale è che alcune persone hanno una difficoltà fisiologica nel regolare l’appetito e la spesa energetica, facendo sì che si accumuli grasso nell’organismo. Non è né un fatto di mancanza di volontà né una colpa individuale. Ci sono fortissime componenti genetiche, che sono poi alla base di questa epidemia globale di obesità a cui assistiamo».
L’obesità infantile è in aumento. Quali sono i rischi e le conseguenze di questo fenomeno? Quanto conta la prevenzione?
«L’obesità infantile è ancor più drammatica, perché vuol dire aumentare la durata di esposizione alla malattia. Spesso, infatti, è una condizione che permane anche nell’età adulta. Questo perché siamo tutti immersi, bambini compresi, in un ambiente obesogeno. L’Italia, in particolare, è tra i Paesi con i numeri più alti per quanto riguarda l’obesità infantile. Attualmente un italiano su dieci è obeso, ma se non interveniamo subito questa percentuale è destinata a crescere nei prossimi anni, così come lo sviluppo di malattie collegate all’obesità. La prevenzione è quindi fondamentale, ma dobbiamo intenderci su un punto: non significa dire a una persona “Muoviti di più e mangia di meno”. Per essere efficace serve un approccio di sistema, intervenendo ad esempio sulle politiche alimentari. Bisognerebbe garantire cibi sani a prezzi più bassi, mentre spesso i prodotti a buon mercato e alla portata anche delle classi meno abbienti sono quelli ultra-processati e dannosi per la salute. Bisogna fare in modo che si possano modificare quegli stili di vita che portano all’obesità. In tal senso le nostre città dovrebbero garantire più spazi e strutture in cui svolgere attività fisica, anche per le persone meno giovani».
Le nuove terapie farmacologiche che prospettive di cura forniscono?
«Stiamo vivendo un momento rivoluzionario, perché le nuove cure farmacologiche stanno aprendo prospettive inedite nella lotta all’obesità. Sono farmaci che interferiscono sulla regolazione dell’appetito, e rendono quindi più fisiologico il comportamento alimentare. Sono sicuri e hanno un’efficacia molto buona, perché permettono di ottenere una riduzione del peso iniziale del 15- 25%. Riducendo l’appetito, questi farmaci rendono possibile una dieta più equilibrata e specifica per il singolo paziente. Ciò, però, non significa che queste medicine vadano somministrate indistintamente a qualsiasi persona affetta da obesità. Il tutto deve infatti avvenire nel quadro di un cambio generale dello stile di vita, aumentando anche l’attività fisica».
Quando invece è necessario ricorrere alla chirurgia bariatrica?
«L’intervento chirurgico è sicuramente efficace nel contrastare l’obesità, ma non è infallibile, visto che non tutte le persone sottoposte a chirurgia bariatrica registrano lo stesso calo ponderale. Di certo è stato il principale modo di approcciare a questa malattia fino alla più recente introduzione dei farmaci. Permette una riduzione del peso marcata e duratura, perché interviene modificando direttamente l’anatomia dello stomaco».
Quali sono allora le reali possibilità di cura?
«Il problema di fondo dell’obesità è uno: la tendenza, come tutte le malattie croniche, alla recidiva. Sia con la classica dieta accompagnata da attività fisica, sia con l’assunzione di farmaci, se si sospende il trattamento, è molto probabile recuperare il peso che si era perso. Questo può avvenire anche con la chirurgia bariatrica, anche se in maniera più lenta. In un prossimo futuro la speranza è di poter combinare le varie terapie per una risposta più efficace e un approccio mirato alla condizione del singolo paziente. Ad esempio, una persona con un’obesità grave, cioè con un indice di massa corporea molto elevato, potrebbe avere bisogno dell’intervento chirurgico, mentre per altri soggetti potrebbe essere più opportuno intervenire con terapie differenti, per un approccio sempre più clinico e concreto, capace di valutare rischi e benefici».
C’è anche uno stigma sociale nei confronti dell’obesità. In che modo questa malattia incide sulla salute mentale?
«Il tutto parte dall’idea assolutamente da eradicare che l’obesità sia una colpa, che questi pazienti siano incapaci a controllare chissà quali vizi o istinti. La colpevolizzazione è uno stigma che spesso proviene anche da parte degli stessi operatori sanitari. In questo modo la persona non solo viene colpevolizzata, ma si convince essa stessa di essere colpevole e debole, per cui si parla di stigma interiorizzato».
Ciò ha pesanti ricadute in tanti campi della vita privata e professionale. Cosa bisognerebbe fare per cambiare questo paradigma?
«Spesso tutto ciò porta a fallimenti e limitazioni in campo lavorativo, nelle relazioni e in generale nella realizzazione personale. Questa colpevolizzazione in molti casi sfocia in ansia, depressione, in comportamenti alimentari sregolati. Tutto ciò ha un forte impatto sulla vita di tali persone e sul loro percorso di cura. Bisogna intervenire riducendo, con una maggiore educazione e sensibilità al riguardo, questa stigmatizzazione. Così riusciremmo a fare un passo in avanti decisivo nel trattamento dell’obesità».