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“Essere obesi non è una colpa”: TPI raccoglie le testimonianze di chi è riuscito a combattere questa malattia

Per anni è stata una vergogna da nascondere. Ora invece si inizia a parlare di questa patologia che merita rispetto e cura. Beppe, Giulia, Giorgia e Cristina raccontano a TPI cosa significa guarire

Di Lara Tomasetta
Pubblicato il 24 Ott. 2025 alle 15:48

Per anni l’obesità è stata considerata una colpa, una mancanza di volontà, un difetto da nascondere. Oggi, grazie a nuove consapevolezze mediche e sociali, si comincia finalmente a riconoscerla per ciò che è: una malattia cronica, recidivante e complessa, che richiede cura, sostegno e rispetto. Ma dietro ogni diagnosi ci sono volti, voci, percorsi unici. Queste sono le storie di Beppe, Giulia, Giorgia e Cristina, quattro persone che hanno affrontato l’obesità con determinazione, fragilità e coraggio, trovando – attraverso la fatica e la rinascita – una nuova libertà.

Da 185 chili alla rinascita
«Sono sempre stato, per i registri che teneva mia madre nei primi mesi di vita, uno che cercava la sesta poppata oltre la quinta», racconta Beppe Macheda sorridendo. La sua storia inizia da lontano, ma attraversa una delle esperienze più difficili che una persona possa affrontare: convivere con l’obesità e riuscire a riprendersi la vita. «Ho sempre fatto tanto sport, sin da bambino. Quindi questo probabilmente mi teneva sotto controllo», spiega. «All’esame di maturità, con tutto lo stress del passaggio dal liceo all’università, ho toccato il peso di 145 chili». Un livello che per molti sarebbe un punto di non ritorno, ma non per lui: «Ero una persona abbastanza testarda, quindi mi sono messo sotto con una bella dieta seguita da un nutrizionista, tanto sport come già facevo, ma con più costanza. Sono arrivato a un peso ragionevole, tra i 98 e i 102 chili, oscillavo su quella fascia e l’ho mantenuta per tanti anni».
Poi, qualcosa cambia. «Fino a quando ne ho compiuti 37 e probabilmente, senza rendermene conto, sono arrivato a pesare 185 chili. Da quando mi sono sposato nel 2008 fino a quando ho capito di avere un problema serio, nel 2017». È allora che decide di farsi aiutare: «Sono andato da una nutrizionista, la migliore che c’era nella mia città, perché volevo il meglio per me. Volevo un professionista quanto più esperto possibile, visto che avevo un problema molto, molto preoccupante per la salute».
Il momento della verità arriva davanti alla bilancia. «Io a casa ne avevo una, ma sai come sono: non sono attendibili. Quella della nutrizionista ha sfiorato 200 chili. La faccia di chi era nello studio con lei, la mia ex moglie, lei stessa, e io… si è fatta scura. Perché 200 chili non è qualcosa che puoi affrontare con semplicità». La dottoressa gli propone subito la chirurgia bariatrica. «Mi propose la possibilità dell’intervento, ma io ero orgoglioso, ero anche un po’ ignorante in materia. Non ne avevo mai sentito parlare davvero. Avevo sentito parlare del bendaggio, dell’anello gastrico, ma era tutto un po’ fumoso e misterioso per quanto mi riguardava». All’inizio Beppe segue una dieta mediterranea «che comunque consisteva in un bel po’ di roba da mangiare. Per esempio avevo 300 grammi di carne rossa a pasto, perché mi spiegò che un grande obeso non puoi metterlo a un regime alimentare stretto: devi farlo dimagrire mangiando, insegnandogli a mangiare». La dieta, alternata a una chetogenica più restrittiva, lo porta a perdere 22 chili in un anno. «Però ho fatto tantissima, tantissima fatica. Io avevo sempre, sempre fame. Per me il cibo era un anestetico, un modo per arrivare a fine serata facendo in modo che il giorno non mi avesse procurato troppo dolore».
Alla domanda su che tipo di cibo lo danneggiasse di più, Beppe è chiaro: «Nel mio caso non tanto la tipologia. Paradossalmente, le mie analisi del sangue, compatibilmente con lo stato di salute di un grande obeso, erano tutto sommato buone. Non impazzivo per i dolci, per me era una questione di quantità: pasta, carne, affettati, pizza. Quello che mi danneggiava davvero erano le bibite gassate». Alla fine di quell’anno di sacrifici, la nutrizionista lo mette davanti alla realtà: «Mi disse: “Guarda, possiamo continuare quanto vuoi, ma così non vinciamo questa battaglia. Sei giovane, devi fare qualcosa. Se non lo fai, rischi di morire tra qualche anno. Io ti consiglio vivamente l’intervento: saresti il paziente perfetto”».

Intervento ospedaliero
«La tipologia d’intervento era una resezione verticale, tecnicamente si chiama resezione verticale laparoscopica a forma di manica, che in inglese si traduce in “sleeve gastrectomy”. È una gastrectomia che lascia la sacca gastrica a forma di manica, come se fosse un braccio con il gomito e l’avambraccio insieme». La dottoressa gli spiega che «la qualità del tuo cibo è tutto sommato buona, quindi il tuo problema più grande è la quantità». «Avevo sempre fame, perché con uno stomaco grande come il mio è come essere sempre in riserva di benzina con la macchina: più metti roba, più te ne richiede». Nel gennaio 2018 Beppe si sottopone all’intervento: «Mi hanno tenuto una notte in terapia intensiva per osservarmi, un uomo con tutto quel grasso sull’addome può incorrere in qualche pericolo. Dopo tre giorni sono tornato a casa». Il risveglio è sorprendente: «Mi sono svegliato che magicamente non sentivo più fame. Questo è dovuto al fatto che, all’interno della sacca gastrica, tolgono un ormone liquido che si chiama grelina, che è quello che ti procura il senso di fame. Nel mio caso, togliendo quello, mi hanno fatto passare quel senso di fame che non ho più avuto per quasi un anno». Grazie all’intervento, Beppe perde 55 chili nel primo anno. «Sicuramente questi interventi sono fatti per riportare il paziente in salute, per toglierlo dal rischio di perdere la vita. L’effetto metabolico finisce tra i 12 e i 18 mesi, i più fortunati ne usufruiscono per 24. Poi diventi una persona normale, con uno stomaco che ha un freno meccanico: più di tanto dentro non ci sta». Ma, avverte, «la fregatura è che la nostra mente si abitua. Tu sai che ci sta poco, e quel poco dovresti metterlo di buona qualità. Invece scatta qualcosa che ti porta a non mangiare bene o a cadere nelle cattive abitudini». «Spesso capita anche a molte persone operate come me: finito l’effetto dell’intervento – quello che noi chiamiamo la luna di miele – se non si è stati bravi a rieducarsi nell’alimentazione, si possono trovare forti problematiche. Perché il rapporto col cibo non puoi curarlo chirurgicamente, serve un approccio psicologico, terapeutico». «Io sono stato fortunato», aggiunge, «sono riuscito a gestire il rapporto col cibo in maniera abbastanza semplice. Ma conosco tante persone che non ci sono riuscite».
Beppe segue anche un percorso psicologico: «Sì, per breve tempo. In molte strutture è associato all’intervento chirurgico, ma a Torino non è usanza. L’ho dovuto fare privatamente. Mi ha aiutato in quattro mesi: mi sono rimesso sui binari e ho proseguito fino a perdere quasi 100 chili. Ero arrivato a pesare 85». Eppure, quel traguardo non lo fa stare meglio: «Paradossalmente a 85 chili non stavo così bene come avrei pensato. Per la mia struttura fisica, quel peso non era ideale. Era troppo poco, per me e per lo stile di vita che volevo avere». Così riprende una decina di chili «sempre sotto controllo medico, seguito da professionisti». Da allora si mantiene stabile «tra i 95 e i 100 chili. Mi trovo bene perché corro, faccio movimento, non sento stanchezza, non ho debolezza, ho riacquistato tutta la mia forza fisica». «Per il famoso BMI sarei ancora al limite tra sovrappeso e obesità di primo grado, ma a me non interessa. Mi interessa stare bene. Ho capito che il peso è solo un numero: noi non dobbiamo identificarci nel numero della bilancia, dobbiamo sentirci bene con la nostra mente».
Nel suo percorso, Beppe ha conosciuto anche lo stigma sociale: «Io sono stato abbastanza fortunato, forse anche per la mia stazza fisica. Nessuno mi ha mai offeso apertamente, ma l’ho percepito. Le offese gratuite ci sono, soprattutto per le donne». Sul lavoro non ha mai avuto difficoltà, ma gli episodi non mancano: «Mi ricordo che una volta mi cadde il badge per terra e un collega, prima che potessi chinarmi, mi disse: “No, Beppe, tranquillo, te lo prendo io”, per non farmi abbassare. Era un gesto gentile, ma ti rendi conto che la percezione che gli altri hanno di te è quella di una persona non in salute». Altre volte, però, la difficoltà era puramente fisica. «In aereo, ad esempio, quando la hostess ti porta la cintura allungata… rimane un po’ così. Poverina, fa solo il suo lavoro, ma a me la cintura non si sarebbe mai chiusa senza prolunga». E c’è un episodio che non dimentica: «Ero a un parco giochi con mio figlio, aveva cinque o sei anni. Volevo portarlo su una giostra con la protezione che si abbassa come un ferro di cavallo, ma la mia non si chiudeva. Il ragazzo addetto era mortificato. Ho dovuto chiedere a mio cognato di accompagnarlo. Lì ho dovuto mettere da parte l’orgoglio. È stato un colpo al cuore».

Dal pubblico al privato
«Per la parte chirurgica mi sono affidato al sistema sanitario nazionale», spiega Beppe, «ma per la parte dietologica no. Noi obesi e ex-obesi abbiamo bisogno di controlli serrati, e nel pubblico non è possibile farlo. Mi facevano un consulto alla dimissione, uno dopo un mese, poi al sesto e poi una volta l’anno. Troppo poco». Così decide di rivolgersi a un nutrizionista privato «esperto in interventi bariatrici, perché non tutti lo sono. Ho dovuto proseguire a mie spese, ma sono stato fortunato: era abbastanza onesta. Oggi le visite costano molto di più». Anche la parte psicologica l’ha dovuta affrontare da solo. «Mi sono cercato un professionista e ho pagato le sedute. Per fortuna ho risolto, ma è un bel peso sulle casse. Spero che con la nuova legge che è uscita da poco si possa trovare un aiuto anche in quel senso».
Beppe riflette a lungo sul modo in cui la società guarda le persone obese. «Per anni ho percepito che l’obesità fosse vista come un vizio, come una mancanza di volontà. Raramente qualcuno la considerava una malattia. Adesso il vento sta cambiando, grazie al lavoro di Iris (Iris Zani, presidente dell’associazione Amici Obesi, ndr), che ha combattuto come una leonessa per tutti noi. Oggi si inizia a capire che un obeso non è una persona che si ammazza di cibo: è una persona che ha un problema. Si comincia a capire che l’obesità ha componenti sociali, ambientali e genetiche. Io dico sempre: l’obesità è una malattia, non è una colpa. Nessuna malattia può essere una colpa. Un malato non sceglie di essere malato, che sia leucemia, cancro, obesità o diabete», dice Beppe. «Spesso paragono l’obesità al diabete: sono entrambe croniche, recidive e a volte invalidanti. Io posso perdere tutti i chili che voglio, ma non sarò mai guarito totalmente. La tengo a bada. E come si tiene a bada una malattia cronica? Con le cure costanti, semplicemente quelle».
A differenza di molti, Beppe non ha mai sofferto di disturbi alimentari. «No, per fortuna no. Mi conosco perché mia figlia ha avuto un principio di anoressia che per fortuna abbiamo curato in tempo. Io non ho mai avuto binge eating o bulimia. Mangiavo tanto, ma in maniera ordinata. Non tiravo giù tutto quello che trovavo. Il mio problema era la quantità, non la qualità: selezionavo anche abbastanza quello che mangiavo». 

Tra diete e chirurgia
Giulia, 54 anni, oggi è direttrice generale di un’agenzia di relazioni pubbliche. Vive immersa nel mondo della comunicazione, ma per decenni ha dovuto imparare a comunicare con la parte più difficile di sé: il proprio corpo. La sua storia con l’obesità è cominciata presto: «Quando ero solo una bambina», ci racconta. «Nella mia famiglia portare cibo in tavola era un modo per dimostrare affetto, per prendersi cura degli altri. Il cibo era abbondante e importante, e per me è diventato presto consolazione. Quando ero triste, arrivava il dolcetto». Fin dall’età di 6-7 anni, Giulia inizia a lottare con i chili di troppo. «A 10 anni ho fatto la mia prima dieta. Sono stata ricoverata per quindici giorni in un ospedale di Milano e mi diedero una dieta da 800 calorie al giorno. Oggi sappiamo che è una follia, ma allora si faceva così. Per una ragazzina in fase di crescita era ingestibile». L’esperienza, durissima, segna l’inizio di un lungo percorso di diete restrittive e del cosiddetto effetto “yo-yo”. «Ogni volta perdevo peso, poi lo riprendevo. A 18 anni ho seguito una dieta con farmaci anoressizzanti, una moda dell’epoca. Persi tantissimi chili, ma li ripresi quasi tutti. Mi stabilizzai intorno ai 70-75 chili, ma non ero mai serena».
La svolta arrivò dopo la gravidanza. «Quel periodo è stato un innesco: i grandi cambiamenti ormonali mi hanno portato a un aumento di peso enorme. Arrivai a 114 chili: obesità severa, considerando che sono alta un metro e cinquantotto». Il suo medico le parla di una nuova procedura chirurgica. «Mi disse: “Giulia, ho conosciuto un professore che fa questi interventi di restrizione dello stomaco”. A febbraio fui operata di bendaggio gastrico».
Ma l’intervento, eseguito senza una preventiva gastroscopia, porta a complicazioni. «Avevo una gastrite latente che il bendaggio ha peggiorato. Potevo mangiare solo cibi morbidi, e quindi dolci. Alla fine sviluppai un’ulcera severa, quasi perforante». A quel punto, un medico le propone una soluzione alternativa: «Mi disse: “Signora, visto che dobbiamo intervenire, perché non associamo la cura dell’ulcera a un intervento per perdere peso?”. Così, dopo essermi informata bene e aver parlato con altri pazienti, accettai di fare un bypass gastrico. Era gennaio 2020, e poco dopo sarebbe iniziato il lockdown. La mia rinascita è cominciata proprio allora».
Durante la pandemia, Giulia impara a cambiare il suo rapporto con il cibo. «Ho capito che dovevo cambiare testa, non solo corpo. Prima mangiavo un solo pasto al giorno per paura di ingrassare, avevo un metabolismo bloccato. Oggi faccio cinque pasti al giorno, seduta, con calma, e seguo un piano alimentare bilanciato. Mi alleno in palestra tre o quattro volte a settimana». Da allora, Giulia ha perso oltre 60 chili e mantiene il suo peso stabile da anni. «Sono passati quasi sei anni dall’intervento e quattro da quando ho raggiunto il mio peso attuale. Non è stato solo un percorso fisico, ma mentale. Ho razionalizzato il mio rapporto col cibo. Non avevo bisogno di una terapia psicologica costante: ho imparato a capire le mie fragilità e a gestirle». Un aiuto importante è arrivato dal volontariato. «Sono diventata volontaria in un’associazione che aiuta i pazienti bariatrici. Stare accanto a chi affronta la stessa strada mi dà forza e mi aiuta a mantenere l’equilibrio. Dico sempre che l’intervento non è la fine, è solo l’inizio. Poi sei tu che devi impegnarti a seguire le regole, mangiare bene, muoverti e ricordarti che l’obesità è una malattia cronica e recidivante».

“Ho ritrovato me stessa”
Arrivare al peso forma, però, non significa sentirsi subito bene. «Quando mi sono vista magra, non mi riconoscevo. Mi sentivo svuotata. Ho fatto cinque interventi di chirurgia ricostruttiva. È stato fondamentale per accettarmi di nuovo. In quel momento sì, ho avuto bisogno dello psicologo: mi ha aiutata a fare pace con l’immagine nuova che vedevo nello specchio».
Nel corso della sua esperienza, Giulia ha visto anche cambiare l’approccio medico e sociale all’obesità. «Negli anni ’80 e ’90 le diete erano rigidissime, da 800 calorie, tutto pesato al grammo. Oggi c’è un approccio più multidisciplinare e sostenibile. L’obiettivo non è far dimagrire subito, ma insegnare a mangiare in modo equilibrato a lungo termine. La dieta non deve essere una punizione, ma uno stile di vita». Un cambiamento sancito anche dalla legge. «L’Italia è stato il primo Paese ad approvare una legge che riconosce l’obesità come malattia cronica e recidivante. Questo significa che chi entra in un percorso sanitario oggi viene visto da più specialisti: dietologo, endocrinologo, psicologo. È una visione finalmente più completa».
Nonostante i progressi, lo stigma resta. «Dalla scuola ai mezzi pubblici, fino agli ambulatori medici, una persona obesa subisce micro-discriminazioni. A me è capitato di non trovare il bracciale per misurare la pressione o di arrivare al limite del peso per fare una risonanza magnetica. E poi ci sono gli sguardi, le risatine quando devi chiedere la prolunga per la cintura in aereo». Per Giulia, lo stigma nasce da un pregiudizio radicato: «Il peso viene associato alla pigrizia, alla mancanza di autocontrollo. Ma nessuno direbbe mai che una persona anoressica non è malata. L’obesità è la stessa medaglia, solo dall’altra parte». E non ha dubbi: «Non condivido nemmeno l’idea che basti “accettarsi” sempre e comunque. È giusto volersi bene, ma un eccesso di peso comporta comunque conseguenze mediche. Io oggi sto bene, ma le mie ginocchia e le mie anche hanno sopportato per cinquant’anni un peso enorme, e ne pagano ancora le conseguenze».
Oggi Giulia riconosce i passi avanti del sistema sanitario italiano, ma anche le sue mancanze. «Ci sono ottime strutture e medici competenti, ma la parte psicologica è ancora carente. Molte persone hanno bisogno di un sostegno costante e non se lo possono permettere: una seduta dallo psicologo costa troppo. E anche la chirurgia ricostruttiva, fondamentale per il benessere psicologico, è sempre meno accessibile perché le Regioni tagliano i fondi». La sua conclusione è lucida, quasi professionale, ma anche profondamente personale: «Dimagrire non è solo perdere peso, è imparare a volersi bene nel modo giusto. Il corpo cambia, ma la testa deve cambiare con lui».

“Da 145 a 70 chili”
Sull’ultimo vagone della metropolitana, tra due sedili stretti, il primo istinto è ancora quello di restare in piedi. «Per anni occupavo più di un posto, vedevo le persone spostarsi», dice Cristina, 60 anni. Oggi quel corpo non c’è più: grazie a un intervento bariatrico ha perso 75 chili, passando da 145 a 70. «Quello che racconto appartiene al passato, ma certe sensazioni restano nella memoria del corpo». La quotidianità, allora, era una salita continua. Allacciarsi le scarpe significava piegarsi con fatica; una telefonata in ufficio, se si prolungava, toglieva il respiro. Le scale erano una prova, salire sull’autobus con lo scalino alto un’impresa. «Le difficoltà erano basiche, quelle che chi è normopeso dà per scontate».
Gli spazi pubblici diventavano trappole. Nei piccoli teatri di quartiere, le sedie a ribalta lasciavano lividi sui fianchi. Ai tavolini dei bar estivi, le poltroncine di plastica con i braccioli facevano temere di rompersi. Spogliatoi angusti, docce con piatti stretti, cabine d’albergo dove girarsi era complicato: «Ogni gesto richiedeva calcoli e rinunce». Lo stigma, spesso, aveva la voce piatta della normalità. Al lavoro, anni senza promozione: «Uscire dalla sede, andare in trasferta, mostrarmi ai clienti non piaceva. Poi ho perso peso e, pur essendo la stessa persona, mi hanno promossa: responsabile d’ufficio, quattro persone da gestire, riunioni aziendali. Ero identica, solo più magra». Nei negozi, l’umiliazione poteva consumarsi sulla soglia: «Una commessa mi disse: “Per lei qui non abbiamo nulla” prima ancora di chiedermi cosa cercassi. Ero entrata per un regalo a mia sorella».
Per difendersi, Cristina imparava a scherzare prima degli altri. «Mi autostigmatizzavo: facevo io la battuta, così controllavo la situazione». Ma l’ironia non leniva la solitudine. Le scuse per evitare le uscite — «una camminata in montagna? Dopo due passi stramazzavo» — finivano per allontanare gli amici. «Se dici sempre di no, smettono di invitarti. E la casa diventa un rifugio che stringe».
La decisione di cambiare è arrivata quando la solitudine ha iniziato a pesare più della fatica. Cristina si è rivolta a un centro d’eccellenza per l’obesità, con équipe multidisciplinare. L’iter è stato rapido: tre mesi tra la visita di accettazione e la sala operatoria. Nessuna complicazione. «Sono stata fortunata, ma anche consapevole: non si va a dormire a 70 chili e ci si sveglia a 145. Ci sono meccanismi che ti portano a cercare nel cibo una compensazione. Se non li scardini, torni al punto di partenza».
Il percorso più duro comincia dopo il calo ponderale. «Gestire la parte emotiva è stato più difficile che perdere peso». La terapia psicologica apre cassetti rimasti chiusi per anni e ridisegna i rapporti. «Ho perso delle amicizie: vedere una donna di cinquant’anni tornare a una fisicità “normale” per alcune è diventato un confronto, una minaccia. Ma un’amicizia vera è felice del tuo benessere». Oggi Cristina assume integratori — ferro, calcio, potassio, formulazioni specifiche per operati bariatrici — che dovrà prendere a vita: «A sessant’anni la salute si mantiene, si cura. I miei esami sono perfetti».
Il messaggio che ripete a chi la ascolta è netto: «Il supporto psicologico non è opzionale, è obbligatorio». Perché l’obesità non è un difetto di carattere. «È una malattia. Non bisogna vergognarsi, ma farsi aiutare: scegliere centri specializzati, affidarsi a professionisti, contattare le associazioni di pazienti. I percorsi oggi sono molti — chirurgici, farmacologici, nutrizionali — e vanno costruiti su misura». Restano le cicatrici invisibili: la prudenza davanti a un sedile libero, l’occhiata rapida alle sedie con i braccioli, il ricordo di una commessa che ti annulla con una frase. Ma oggi quelle memorie non dettano più la rotta. «Ho ripreso in mano la mia vita», dice Cristina. «E a chi è dentro quel tunnel dico: non arrendetevi. Le soluzioni ci sono. Non abbiate vergogna, fatevi aiutare».

“Contro lo sguardo altrui”
«Obeso a un certo punto ti ci ritrovi», racconta Giorgia, 40 anni. «E quando ne diventi consapevole, il percorso è quello che scegli, o non scegli, di affrontare per cercare di guarire». Per Giorgia, la lotta con l’obesità non è solo una questione di salute, ma una sfida quotidiana fatta di ostacoli pratici, giudizi e fatica emotiva. «La difficoltà più grande, nella vita di tutti i giorni, è trovare vestiti», spiega. «Non è facile trovare taglie comode che siano anche giovani e con un minimo di gusto. E quando le trovi, costano uno sproposito. Non tutti possono permetterseli».
Ma i vestiti, per lei, sono anche un simbolo più profondo: quello del modo in cui la società ti guarda – o meglio, ti valuta. «Sul lavoro capita spesso di essere scavalcata da donne più avvenenti. Gli uomini ai vertici, purtroppo, fanno ancora differenze. Se non puoi permetterti scarpe col tacco perché il piede è grasso, o se i vestiti che indossi non sono aderenti o eleganti, ti vedono meno. Anche se svolgi lo stesso ruolo, anche se sei brava uguale». Il giudizio sociale pesa, e non solo sul corpo. «In certi posti dove è previsto un dress code, spesso non vado nemmeno», confida. «Non perché non voglia, ma perché non ho la possibilità di seguire quelle regole. È frustrante, ma è la realtà».
Quando le chiedo come affronti i momenti più difficili, Giorgia sospira e risponde con una sincerità spiazzante: «Mangio. Paradossalmente, è proprio così. Ed è lì che nasce il circolo vizioso. L’obesità, quando non è fisiologica, è spesso legata a disturbi alimentari e a cause emotive. Ti rifugi nel cibo per stare meglio, e così peggiori la situazione». Sul fronte delle cure, la sua esperienza è chiara: «Non è che ce ne siano molte e il sistema sanitario non offre un vero sostegno. Ci sarebbe bisogno di molto di più, soprattutto di supporto psicologico». I costi dei percorsi privati, aggiunge, non sono sempre sostenibili: «A volte sono costosi, tra professionisti, farmaci o integratori. Non ho speso cifre folli, ma comunque è un investimento».
I problemi di salute non mancano: «Mi stanco facilmente, ho il fiatone e le articolazioni cominciano a darmi fastidio. E ho solo 40 anni. Fa paura pensare a come potrei stare tra dieci». Oggi, però, Giorgia ha intrapreso un percorso terapeutico che le sta restituendo un po’ di serenità. «Sto affrontando il binge eating con una psicologa. Dopo due anni di terapia, abbiamo lavorato sui traumi che hanno scatenato il disturbo e ora possiamo concentrarci sul sintomo. Usiamo la tecnica dell’Emdr, e con me sta funzionando molto bene».
Prima di salutarla, le chiedo se c’è un messaggio che vorrebbe lasciare. La sua risposta arriva senza esitazione: «A chi non conosce la mia esperienza, dico: smettete di giudicare per l’aspetto o per come ci vestiamo. Non sapete cosa c’è dietro. A chi vive la mia stessa situazione, invece, non serve dire nulla. Ci capiamo anche in silenzio».

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