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    Le Quirinarie sono state il Big Bang della politica italiana: partiti senza visione, senza identità, senza popolo

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 4 Feb. 2022 alle 10:24
    In Italia c’è un partito di cui si parla quasi niente ma che, zitto zitto, da trent’anni marcia sempre più forte. Elezione dopo elezione, allarga il proprio consenso. E alle prossime politiche, salvo improbabili sorprese, conquisterà la percentuale più alta. È il partito dell’astensionismo. Delusi, disincantati o disinteressati, ormai un terzo degli italiani non va a votare. All’alba della Seconda Repubblica, nel 1994, fu solo il 14 per cento degli aventi diritto a non presentarsi alle urne. Nel 2018 gli astenuti erano quasi raddoppiati: 27 per cento. E, visto il desolante spettacolo andato in scena con le ultime quirinarie, è difficile che alle prossime elezioni il dato si abbasserà. Anzi. Fra pugnalate alle spalle, improvvisazioni dell’ultimo minuto, muri contro muri e presidenti del Senato che non staccano gli occhi un secondo dal cellulare, i giorni del voto per il Colle ci hanno consegnato un’immagine che è passata quasi inosservata ma che fotografa in modo plastico la distanza fra partiti e cittadini. Appena a Montecitorio la conferma di Sergio Mattarella è diventata matematica, il segretario del Pd Enrico Letta ha festeggiato – ed è stato festeggiato, quasi acclamato – stringendo il pugno e battendo il cinque con i parlamentari dem che lo circondavano. «Give me five». Come se costringere il presidente uscente a restare dov’è fosse un trionfo. Come se tenere un capo dello Stato al Quirinale oltre i canonici sette anni (per la seconda volta consecutiva) non fosse una evidente forzatura istituzionale.
    Come se a quella soluzione non si fosse arrivati dopo cinque giorni di caos surreale sotto gli occhi attoniti degli italiani. E senza che il Pd, per giunta, avesse avanzato una sola candidatura. «La nostra strategia è stata quella di far salire i voti per Mattarella quotidianamente», ha rivelato, ex post, la capogruppo dem alla Camera Debora Serracchiani. Dunque la tattica del principale partito del centrosinistra era, fin dall’inizio, quella di giocare di rimessa e buttare la palla avanti, affidandosi a uno splendido ottantenne che è senza dubbio in ottima forma ma che non vedeva l’ora di poter andare finalmente (e meritatamente) in pensione. Buono a sapersi. E – intendiamoci – tutto legittimo, anzi la figura di Mattarella è una garanzia di equilibrio per l’Italia: non a caso è stato tra i presidenti più amati della storia repubblicana. Ma se davvero non c’era nessuna alternativa, allora significa che la classe dirigente di questo Paese è esaurita, finita, morta. Eppure anche il ministro Dario Franceschini – terrorizzato all’idea di vedere Mario Draghi al Quirinale – non si teneva dalla gioia: «And the winner is Enrico Letta», ha esultato. Difficile dire se in queste elezioni del presidente della Repubblica ci sia stato davvero un vincitore. Di certo c’è stato un grande sconfitto: Matteo Salvini. Il segretario della Lega è riuscito nella difficile impresa di sbagliarle tutte scontentando tutti. Ha provato a recitare il ruolo del king maker, ma gli è andata male. Molto Male. Prima…………….

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