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    Paolo Ciani a TPI: “Io, vice capogruppo Pd, voto No sulle armi a Kiev”

    Credit: AGF

    “Continuerò a pronunciarmi contro le forniture militari all’Ucraina. Non sono iscritto al partito. Rappresento il movimento Demos e penso che la pace in Ucraina sia possibile. Le polemiche per la mia nomina? Non capisco lo scandalo”

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 7 Lug. 2023 alle 08:00 Aggiornato il 31 Lug. 2023 alle 19:31

    Onorevole Ciani, da quando lei è stato eletto vicecapogruppo del Pd alla Camera si discute del suo pacifismo.
    (Pausa, sorriso, sospiro). «Bene». 

    Alcuni dirigenti nel Pd sostengono che lei abbia posizioni troppo estreme contro la guerra.
    «È  la prima volta che parlo in un’intervista di questi temi dal giorno della mia elezione a vicecapogruppo. Avevo promesso a Elly Schlein che non avrei preso posizioni pubbliche fino alla Direzione del Pd, che poi si è svolta due settimane fa. Come vede ho mantenuto la promessa». 

    Come mai questo fioretto?
    (Sorriso). «Non volevo che una discussione su temi così alti venisse sporcata con il metro delle polemiche di giornata». 

    C’è chi dice che lei ora dovrebbe cambiare la sua posizione, e votare per l’invio delle armi, perché adesso rappresenta tutto il gruppo, non più solo se stesso.
    «Io sono il segretario di un partito. Forse piccolo, ma sicuramente molto serio, che si chiama Demos. Ovvero democrazia e solidarietà, le nostre principali missioni». 

    Non è iscritto al Pd.
    «E nessuno di noi ha intenzione di farlo. Noi non siamo una propaggine politica del Pd. Non siamo cooptati, non vogliamo o dobbiamo cambiare le nostre idee in virtù di qualche ruolo». 

    Quindi se domani si votasse un nuovo decreto per l’invio delle armi…
    «Io voterei di nuovo contro, perché questo è il convincimento della comunità che rappresento». 

    Demos nasce nel cuore del mondo cattolico, nella comunità di Sant’Egidio.
    «Non solo: nasce da persone (vari cattolici) insoddisfatti di una politica lontana dalle persone. Ma non siamo un partito confessionale, né una proiezione di Sant’Egidio: alcuni di noi ne fanno parte, altri no. Siamo nati intorno ai valori di solidarietà, giustizia sociale e pace». 

    E il suo ruolo alla Camera?
    «Non capisco lo scandalo. È già successo tante volte in passato che nei gruppi parlamentari ci fossero vicepresidenti di altri partiti! Tutti, fra l’altro, con libertà di voto e di coscienza». 

    È vero: ad esempio Diego Novelli e Valdo Spini (La Rete e socialisti) ai tempi dell’Ulivo.
    «E nessuno chiedeva loro di omologarsi. Altrimenti non hai più un alleato con una sua identità, ma un suddito». 

    Nascete come lista di appoggio a Zingaretti per le regionali.
    «Parlammo, ci trovammo, poi Nicola disse: “Voi moderati centristi…”. Io lo fermai e gli dissi: “Guarda che qui moderati non ce ne sono”». 

    Alcuni dirigenti del Pd hanno protestato per il fatto che lei abbia preso il posto di Piero De Luca, figlio del governatore della Campania, esponente della mozione Bonaccini.
    «Altro errore. Io ero aggiuntivo, non sostitutivo. E questo il primo a saperlo è Piero. Che non ha rancore verso di me». 

    Ne è certo?
    (Ride). «Assolutamente sì, sono stato proprio io a dirglielo. Ho letto retroscena che parlavano di lotte e destituzioni, ma appena ho capito che poteva crearsi un equivoco c’ho parlato, subito, in aula. Avrò tanti difetti, ma sono trasparente. Ho una parola sola». 

    Il paradosso vuole Paolo Ciani, per dieci giorni uomo della discordia nel Pd, sia uno degli uomini più pacati e anti-polemici del parlamento. Una matassa di capelli grigi (un tempo ricci), sorriso perenne, modi affabili, battute argute, sembra un Woody Allen trasteverino. Cattolico, ex obiettore, una vita nel volontariato, anni di lavoro con i Rom, si considera «radicale» sulle questioni di principio. Il suo più grande motivo di orgoglio, però, è una foto al fianco di un uomo vestito di bianco. 

    Onorevole Ciani, nell’immagine che le è più cara si vede un giovane riccioluto, con una camicia blu, che tiene la mano a Papa Wojtyla…
    «È andata così. Io ero quello più all’esterno, in un gruppo di sei ragazzi di tutto il mondo che dovevano accompagnare il Papa nella Giornata mondiale della gioventù, per aprire la porta sacra e…».

    La ragazza che era fra lei e il Papa si pietrificò.
    «Bisogna capirla. Eravamo tutti emozionati, in mondovisione, al cospetto di un gigante». 

    Ma il Papa cercava un sostegno fisico.
    «E così io allungai la mano». 

    Lui vi disse solenne: «Questa è la porta del nuovo millennio».
    «E io risposi imbambolato: “Grazie Santo Padre. Grazie per averla passata insieme ai giovani”. E qui lui, spiazzandomi, mi lanciò uno sguardo e mi fece una battuta: “Sì, un giovane: di 80 anni”. Nel suo modo quasi impercettibile sorrise. È un ricordo che mi diverte e mi commuove». 

    Alla sua morte era tra i Papa boys?
    «Certo. È stata la più bella e grande manifestazione giovanile della storia». 

    Lei che storia ha?
    «Mio padre, nato a Testaccio, si era ritrovato orfano: fu assunto alla Stefer per mantenere la famiglia. Conobbe mia madre mentre faceva sindacato nella Cisl». 

    E poi iniziò la sua carriera politica.
    «Una vita nella Dc, fino a diventare parlamentare, nella Margherita». 

    Che rapporto avevate?
    «Abbiamo discusso una vita, ma litigato mai. Malgrado le idee diverse ci rispettavamo: “Non faccio politica – pensavo – finché la fa lui”. E così è stato». 

    E sua madre?
    «Veniva da una famiglia più “borghese”. Si erano conosciuti al mare a Fiumicino. Ha lavorato da impiegata alle Poste tutta la vita». 

    Lei abitava a Monteverde, il quartiere delle memorie garibaldine, attaccato a Trastevere, sede di Sant’Egidio.
    «I casi della vita. Un giorno trovo dei ragazzi, fuori da scuola, che mi dicono: “Ci dai i tuoi libri delle medie? È per i bambini della periferia”». 

    Lei risponde di sì.
    «E quei ragazzi, che erano di Sant’Egidio, mi rispondono: “Allora vieni con noi”. Sono finito al Trullo, correva l’anno 1984». 

    Non l’ha abbandonato più.
    (Ride). «No. E nemmeno le periferie romane». 

    La prima cosa che fa è una scuola popolare.
    «Tra i bambini del Trullo. Molta droga, tanti immigrati dal Sud, genitori analfabeti, talvolta violenze domestiche e insieme un’enorme fame di vita». 

    Cosa la spinge a farne una missione?
    «La prima leva è evidente: era la concretizzazione del Vangelo. Cosa poteva esserci di più per un ragazzo credente?».

    E poi?
    «Si pensa che aiutare sia privarsi di qualcosa. In realtà ero io che al Trullo iniziavo a imparare dagli altri». 

    Chi c’era che conosce ancora?
    «Tutti. Come l’attuale presidente di Sant’Egidio, Marco Inpagliazzo, poco più grande di me. E poi Andrea Riccardi. fondatore della comunità con un gruppo di studenti del Virgilio, nel 1968». 

    E uno che in futuro potrebbe diventare Papa.
    «Magari. Lei parla di Don Matteo Zuppi. Lui per me è il riferimento di una vita. Ricordo che quando andò a Torre Angela a fare il parroco, lo andai a trovare: “Se ti serve una mano ci sono”. Lui, con il suo romanesco, mi spiazzò: “Allora nun te move più. Mi servirà sempre!”». 

    Me lo descriva.
    «È una banca dati, l’uomo dei rapporti personali, del chiamare per nome: si ricorda di tutto e tutti. Talvolta, quando mi stupisce, gli dico: “Come fai?”. Lui ride: “E che ne so?”». 

    Dopo il liceo?
    «Mi sono occupato dei Rom facendo volontariato e assistenza. Era il 1989 e gli unici problemi li avevamo con la polizia: sarà per la barba o la macchina scassata, ci fermavano sempre. Lo raccontiamo a don Matteo, e lui: “Vabbé portami ‘na fotina!”. Si inventa una sorta di tessera, ci mette la mia foto, un timbro e la sua firma. Io ero scettico, ma funzionò: quando ci fermavano, mostravamo il tesserino. Ce l’ho ancora…».

    Università?
    «Mi ero iscritto a Economia: pensavo ai Paesi in via di sviluppo, e già mi immaginavo in Africa. Poi però sono passato a Lettere, con Calvesi, grande professore di Storia dell’arte. Tesi su Scienza e macchine, Luddismo e Don Milani».

    Primo voto alla Dc?
    «Nooooh… Il primo, forse per distinguermi da mio padre, addirittura a Democrazia Proleteria, l’anno dell’appello elettorale ecologista di Paolo Villaggio. Poi ho votato L’Ulivo, Margherita e Pd». 

    I miti della sua giovinezza?
    «Gandhi, Don Milani e Martin Luther King».

    Vi dicono: voi pacifisti volete la pace, ma non fate nulla per ottenerla.
    «Ricordo l’emozione del nostro primo corridoio umanitario, a Sant’Egidio. Riuscimmo a portare fuori dalla guerra dei caldei dal Kurdistan!».

    Cosa risponde a coloro secondo cui la missione di Zuppi in Ucraina e Russia è stata un errore?
    «Che tutte le guerre finiscono, e finiscono con una trattativa. Quindi il problema non è “se” fare la pace ma “quale” pace. Magari Zuppi riuscisse». 

    Si dice: ucraini e russi si odiano.
    «Tutti i nemici si odiano!  Ero a Sant’Egidio quando arrivarono le delegazioni di Frelimo e Renamo (i due movimenti politici protagonisti di una lunga guerra civile in Mozambico, ndr). Gelo, astio, assoluta incomunicabilità. Le due delegazioni entravano addirittura da porte separate». 

    E c’è una lezione?
    «Con il nostro aiuto trovarono un accordo. La lezione è: la pace è una paziente costruzione e si può fare sempre».

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