Francesco Boccia, questo colloquio non può che partire dal vile attentato subito da Sigfrido Ranucci. Che idea si è fatto?
«L’attentato contro Sigfrido Ranucci è un colpo alla libertà di tutti. Colpire chi cerca la verità significa provare a spegnere la voce della democrazia. Ranucci incarna il giornalismo coraggioso, libero, al servizio dei cittadini. A lui va la nostra solidarietà e la nostra gratitudine per il servizio pubblico che Report compie, ma anche l’impegno a difendere chi ogni giorno rischia per informare. Un Paese che non protegge i suoi giornalisti smette di essere libero».
Facciamo un punto sulle Regionali. I risultati in Toscana e Calabria erano abbastanza scontati, ma nelle Marche la partita era più aperta e il centrosinistra ha perso. Cosa non ha funzionato?
«È stata una tornata elettorale lunga, anomala, quasi un piccolo “tour d’Italia” del voto causato dalla sciatteria del Governo che non ha fatto alcuno sforzo nel dialogare con la Conferenza delle regioni per provare a individuare una data unica e condivisa. I conti veri si faranno solo alla fine. Chi canta vittoria o pretende processi interni sbaglia tempo e bersaglio. Matteo Ricci ha dato tutto, con generosità e coraggio. I marchigiani hanno scelto diversamente, ma noi andiamo avanti: il nostro progetto non si misura su una tappa, ma su un cammino che riguarda l’Italia intera».
Lei è uno dei dirigenti più vicini a Elly Schlein. Cosa ne pensa delle critiche alla segretaria, anche da parte di un pezzo del partito (vedi Gentiloni)?
«A volte sembra che nel PD ci sia ancora chi rimpiange i tempi dei “caminetti”, delle decisioni prese da pochi in qualche stanza al Nazareno e lontane dagli impegni assunti in campagna elettorale. Quel partito appartiene al passato, ed è bene che resti un ricordo. Le logiche che rimpiangono alcuni, non sono di governo ma di gestione del potere, e qualche volta hanno solo aperto la strada alla destra che oggi governa. Con Elly Schlein è tornata l’anima, la passione, l’idea di un partito popolare nel senso più alto del termine. Attorno a lei si è riaccesa una speranza collettiva: l’unità nel PD e l’unità della coalizione per una società più giusta e uguale. Chi sogna il ritorno al partito dell’establishment dovrà farsene una ragione: il PD di oggi non è un club di notabili, non è solo un partito di eletti, ma un partito, radicato sul territorio, che lotta per il futuro, per la giustizia sociale, per i giovani, per un’Italia più giusta».
I consensi alla Meloni sembrano non calare. Perché non è ancora pronta l’alternativa?
«Un’alternativa non nasce in laboratorio, si costruisce nel tempo, con coerenza e fatica. La stiamo tessendo giorno dopo giorno, in Parlamento e nei territori, nella battaglia sui salari, sui diritti, sull’ambiente, per una moderna idea di sviluppo. La destra ha la maggioranza numerica in Parlamento, a causa delle divisioni delle opposizioni nel 2022, ma non credo sia maggioranza nel cuore del Paese. Nel 2027 ci faremo trovare pronti con una proposta progressista ed europeista. La sfida non è solo fermare questa destra, ma presentare all’Italia un’altra idea di Paese, restituendo agli italiani la fiducia che la politica possa davvero cambiare le cose».
Scena piuttosto triste quella di Meloni ritratta a Sharm el Sheik come un’ancella alla corte di Trump nelle settimane scorse…
«Sì, un’immagine indegna per la nostra storia diplomatica. Colpisce che Giorgia Meloni accetti sorridendo l’umiliazione di Trump e si indigni solo quando le critiche arrivano dall’interno. È il solito doppio registro: servile con i potenti, aggressiva con chi le ricorda la realtà. Il problema è politico: questo governo si è inginocchiato davanti agli Stati Uniti. Ha firmato un accordo capestro sui dazi che massacra le nostre imprese, ha accettato di essere comparsa alla passerella di Sharm el Sheik, non ha avuto il coraggio di pronunciare una sola parola di condanna per il genocidio a Gaza. Meloni ha trasformato l’Italia nella dependance di Trump: un Paese che aveva una grande tradizione politico-diplomatica in Medio Oriente ora ridotto a fare da tappezzeria».
Lei è anche uno dei dirigenti PD più vicini a Conte. Che destino vede il campo largo?
«Basta con le geometrie politiche: esiste, e bisogna organizzarlo, il centrosinistra alternativo alla destra oggi al governo. La definizione di campo largo, stretto o a fisarmonica, piace alla stampa ma di fatto esiste sempre e solo il centrosinistra. Quanto è unito dipenderà dalle scelte che faranno i partiti stessi della coalizione. Sarà la coalizione dei diritti: sociali, umani, economici e universali dove sanità, lavoro scuola, e ambiente saranno i pilastri della convivenza tra diverse identità. Il “testardamente unitari” di Elly Schlein non è uno slogan, è una visione politica, una scelta di campo. M5S e AVS sono parte integrante di questa costruzione collettiva. E anche la casa riformista, che molti protagonisti hanno provato e provano a costruire in occasione delle amministrative, dalle regioni alle città, può dar un contributo importante per arrivare uniti al 2027. Dobbiamo ridare agli italiani la voglia di sognare un Paese migliore di quello rabbioso e rancoroso che la destra ha voluto in questi anni. È una sfida enorme alla quale lavoreremo con tutte le nostre forze. Su Calenda? Nulla da aggiungere. Mi limito a sottolineare che ogni settimana contesta e aggredisce le opposizioni anziché il peggior governo della storia».
Su Gaza la sinistra ha fatto troppo poco?
«Premesso che la politica estera la fanno i governi e non le opposizioni, la sinistra ha fatto tutto ciò che era nelle nostre possibilità. In Parlamento, pretendendo sempre un confronto con il governo, attraverso mozioni, atti di sindacato e dure battaglie per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Nelle piazze e nel Paese con i milioni di persone che hanno chiesto e chiedono la fine del genocidio. E anche nei gesti concreti: a partire dal sostegno diretto alla Global Sumud Flotilla che ha dato una grande speranza al mondo per Gaza e per difendere la supremazia del diritto internazionale sugli autocrati. Il Governo Meloni, invece, ha scelto il silenzio compiacente. Noi restiamo dalla parte giusta della storia: con chi soffre, con chi resiste, con chi crede che i diritti umani vadano sempre rispettati».
Sánchez dice: «Tregua non significa impunità». Come deve comportarsi l’Ue con Netanyahu e Israele?
«L’Europa deve ritrovare il coraggio di essere se stessa: custode del diritto, non spettatrice del sopruso. Su Netanyahu pesa un mandato internazionale per crimini di guerra. Eppure si continua a considerarlo un leader e a fare affari come se nulla fosse. Lo ha detto bene Pedro Sánchez: la tregua non cancella i crimini. Dopo settantamila morti, ventimila bambini uccisi, il silenzio è complicità. Se non si ha la forza di agire contro i singoli, si sospendano almeno gli accordi commerciali e l’invio di armi. Il diritto o vale sempre, o non vale più. Tra l’altro ricordo che il PD ha fatto partire una iniziativa parlamentare per chiedere alla CPI di aggiornare il profilo delle accuse nei confronti di Netanyahu e dei ministri accusati, poiché queste si riferiscono ai reati fini al 2024, e manca il 2025; ci aspettiamo un voto unanime del Parlamento».
Mi ha molto toccato, e colpito, la dichiarazione di Incoronata Boccia su Gaza («Nessuno ha prove che Israele abbia mitragliato civili»)…
«È il solito tentativo di rovesciare la realtà, di manipolare le coscienze. Ma oggi la verità non si può occultare: ogni telefono è una telecamera, ogni cittadino un testimone. Le immagini che arrivano da Gaza parlano da sole. La destra può provare a distorcere, ma non potrà cancellare la sofferenza, i volti dei bambini, la devastazione. È la coscienza democratica del mondo che sta parlando, non la propaganda».
Ritiene che questa tregua sia merito di Trump?
«Solo chi è in malafede può crederlo. A Gaza non c’è pace, c’è solo una pausa fragile in una tragedia senza fine. Sharm el Sheik non è stato un vertice di pace, ma una passerella di potere per fare affari. Trump ha usato il dolore altrui come scenografia per la sua propaganda. Attorno a lui, leader europei ridotti a comparse. È l’immagine di un mondo vecchio, stanco, governato da uomini vecchi che fanno accordi sulle guerre che i giovani non vogliono più combattere».
L’azione di Israele ha favorito la rinascita di Hamas invece di sradicarla?
«È l’ennesimo paradosso tragico. Netanyahu e Trump hanno consegnato ad Hamas il controllo dell’ordine nella Striscia: come affidare le chiavi del carcere ai carcerieri. Da anni lo diciamo: i principali azionisti di Hamas siedono nel governo israeliano. Hanno alimentato il mostro per poterlo poi indicare come nemico. È una spirale di cinismo che cancella ogni speranza di pace».
Ma perché c’è questa rincorsa a elogiare Trump?
«Perché molti, a destra, confondono la diplomazia con la sudditanza. Credono che inchinandosi al potente di turno si ottengano vantaggi. Ma Trump non è un alleato, è un uomo d’affari. I sorrisi e le pacche sulle spalle sono durati fino al giorno dei dazi. Poi sono arrivati i conti: export crollato, imprese in crisi, lavoratori in ginocchio. È questa la realtà di un governo che ha svenduto la sovranità economica in cambio di una foto».
Le proteste di piazza delle ultime settimane sono state archiviate troppo in fretta?
«Quelle piazze resteranno nella memoria civile del Paese. Erano piazze di giovani, famiglie, studenti. Non di rabbia, ma di speranza. La destra ha provato a screditarle, ma le immagini hanno parlato più forte di qualunque propaganda. Lì c’era l’Italia che dice no alla guerra, che rifiuta il genocidio, che chiede giustizia e umanità. Non avevano un colore politico: avevano il colore della dignità».
Sulle elezioni in Puglia, che succede?
«La Puglia è un modello di riscatto. In dieci anni ha superato la media nazionale per crescita e attrattività. È la prova che il Sud, se guidato bene, può trainare il Paese. Quel cambiamento è iniziato con la “primavera pugliese” di Vendola ed è proseguito brillantemente con Emiliano. Oggi si apre dopo altri dieci anni un nuovo ciclo, con una classe dirigente giovane, ma rodata e preparata. Con Antonio Decaro e una coalizione di centrosinistra forte siamo pronti a scrivere il prossimo capitolo della storia pugliese».
La Puglia è culla di società innovative, come AQP. Il loro modello può ispirare il resto d’Italia?
«Sì, la Puglia è un laboratorio d’innovazione che unisce radici e futuro. AQP è un gioiello pubblico, all’avanguardia su digitalizzazione e sostenibilità. Ma dietro c’è un ecosistema: università eccellenti, startup, piccole imprese, enti locali che sperimentano. La forza della Puglia è tutta lì: saper coniugare tradizione e modernità, territorio e tecnologia. È una sinergia che può diventare un modello per tutto il Paese».