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    Zingaretti torna in campo: Ri-costituzione italiana, ecco il suo nuovo manifesto politico su TPI

    Nicola Zingaretti. Credit: Matteo Nardone/Pacific Press/Ansa

    Dopo un anno e mezzo di silenzio sul destino della sinistra, l'ex segretario del Pd torna con un articolo-manifesto al fianco di Letta, che TPI pubblica in esclusiva. "Con il Pd diamo agli Italiani una speranza affrontando finalmente i loro problemi, e non giocando con i nomi dei leader. La costruzione del campo largo è ora la nostra missione. Renzi? Aveva un’idea di partito isolato e settario che ci ha portato tante sconfitte"

    Di Nicola Zingaretti
    Pubblicato il 8 Lug. 2022 alle 07:00 Aggiornato il 8 Lug. 2022 alle 10:25

    Ora diamoci una visione del futuro, raccogliamo idee per vivere meglio e costruiamo una proposta per l’Italia. Con Enrico Letta alla guida il Pd è arrivato forte e competitivo alla vigilia delle elezioni politiche e sosteniamo con lealtà e convinzione l’azione del Governo guidato da Mario Draghi. In vista del 2023, siamo chiamati a fare una proposta al Paese sulla quale raccogliere consenso per vincere. L’iniziativa del «campo largo» fu una reazione utile contro un’idea di Pd isolato e settario che ci ha portato tante sconfitte. Un cambiamento molto positivo per cui, con tante e tanti, ho lottato a viso aperto. Ma ora attenzione a non generare confusione. Il motore di un’alleanza, aggregazione o definizione di un «campo» non può avvenire a prescindere da un indirizzo. Deve avere un’anima, dei valori, una visione, un programma per radicarsi nella società e rappresentarne le ambizioni. Non si vince se “costretti” a stare insieme ma se “convinti”.

    La costruzione di questo progetto politico e delle sue basi credo sia ora la nostra missione. Da dove si comincia? Dalle persone. Come recitava il titolo della piattaforma congressuale per Piazza Grande del 2019 e come di nuovo giustamente ci sollecita Romano Prodi. Nel 2023 saranno 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione italiana. Sarebbe veramente un errore vivere questa ricorrenza con vuota ritualità, trasformiamola in un’occasione di rilancio della nostra proposta politica a partire dai valori e gli obiettivi, spesso mancati della Carta costituzionale. Sarà utile farlo, per evitare che si rimanga fermi in un eterno dibattito un po’ astratto su alleanze e generiche «identità».

    In questi ultimissimi anni, del resto, la nostra credibilità è cresciuta perché siamo riusciti ad essere vicini alle persone, con una sintonia vera rispetto ai loro bisogni. C’era di fronte a noi un nemico comune da affrontare. La paura della morte a causa della pandemia ha cambiato tutto e stravolto le priorità. Anche nella politica. Il campo delle forze progressiste, più di altre sensibilità, ha dato centralità alla scienza, e questo ha aumentato la sua credibilità. Abbiamo avuto il coraggio di dare indicazioni semplici ma impegnative: mascherine, distanziamento, lockdown, coprifuoco e poi, ovviamente, vaccini. Scelte difficili, ma che hanno incontrato un consenso diffuso perché erano risposte serie a un problema condiviso dall’intera popolazione. Abbiamo svolto un ruolo vincente. Vincente è stato anche l’approccio sull’Europa. Siamo stati noi a difenderla e cambiarla, contro lo schema nazionalista di attaccarla e distruggerla. Ma proprio perché è cambiato tutto, dobbiamo muoverci. Tanto più dopo che al dramma dell’emergenza sanitaria si è aggiunto quello della guerra, e le prospettive economiche non sono affatto rassicuranti. L’inarrestabile aumento delle diseguaglianze in atto negli ultimi trent’anni ha subìto durante il Covid un’accelerazione e raggiunto livelli drammatici. È questo il vero pericolo per le democrazie occidentali di cui siamo parte e che dobbiamo difendere. Sistemi che non includono più e generano frustrazione e rabbia di cui si nutrono i nazionalismi e i populismi.

    Un Paese diviso

    Qui, dunque, è il cuore oggi del nostro ruolo e della nostra funzione. Riusciremo, come lo siamo stati sul Covid, ad essere davvero la parte più vicina ai bisogni delle persone? La domanda fortissima e finora inascoltata che arriva da donne e uomini, ragazze e ragazzi riguarda le grandi conquiste della nostra civiltà democratica: il lavoro, la scuola, la sicurezza sociale, la possibilità di fare impresa, il rispetto delle identità, creare sviluppo e benessere. Sono queste le riserve democratiche che producono speranza. Ecco perché la risposta alla domanda sul nostro ruolo torna ad essere, anche oggi, la Costituzione e l’impegno necessario per attuarla. Fatemi dire: una “generica” rinascita non ci basta, serve una Ri-Costituzione italiana.

    L’articolo 3 sancisce che tutti hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla Legge. Potremmo dire un’uguaglianza che vede e riconosce le differenze e chiede per tutte queste una piena cittadinanza. Piero Calamandrei definiva in particolare la seconda parte come l’articolo più importante e bello di tutta la Carta costituzionale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo testo, così potente, pregnante e lungimirante, ci indica una strada per nulla contemplativa, rispetto alle tradizionali architetture ideologiche o concezioni statuali. Richiama, invece sfide molto concrete. A partire dalla necessità di rimuovere, grazie ad una attività istituzionale permanente, gli ostacoli che impediscono agli inderogabili contenuti della libertà, di essere vissuti pienamente nel reale svolgimento della storia. Quel che appare sempre più indispensabile è stabilire una connessione tra una codificazione formale dello stato di libertà dei cittadini con una condizione sostanziale di vita, di status economico-sociale.

    La Costituzione è fatta di valori, regole. Ma è anche «un programma da attuare», diceva sempre Calamandrei. E se guardiamo ai diritti, alla condizione umana delle persone, dopo quasi 75 anni, non possiamo non ammettere che la Costituzione è in parte non attuata, una «Costituzione mancata».

    Gli obiettivi che immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale tanti cittadini sentivano possibili da tempo sono stati messi in discussione. La fiducia in un benessere crescente, la convinzione che attraverso i canali della democrazia ognuno fosse in grado di progredire, di arrivare a un dignitoso benessere, di avere un lavoro stabile, di investire i propri risparmi comprando la propria casa e raggiungendo una sua stabilità. Non c’è più tutto questo. Ora prevale l’incertezza, la precarietà, lo sfarinamento dei legami con gli altri. Dilaga un senso di solitudine che è la cifra vera della nostra modernità. C’è di fronte a noi un’Italia sempre più divisa: culturalmente, territorialmente, socialmente, dal punto di vista sanitario e di genere.

    Principi traditi

    A richiamare la centralità di tutto questo, in ultimo è stato proprio il Presidente Mattarella nel suo discorso alle Camere riunite per la sua seconda elezione, ricordando a tutti che «le disuguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono il piuttosto il freno per ogni prospettiva reale di crescita».

    Mettere l’Italia di oggi sotto la luce della Costituzione ci aiuta a ritrovare un orientamento, una meta. Possiamo partire dalle fondamenta. Siamo davvero una Repubblica «fondata sul lavoro», come è scritto nel primo articolo della Costituzione? La distanza con la realtà e siderale. L’Italia è oggi il Paese dell’Unione europea con la più alta percentuale di giovani che non lavorano, non studiano e non sono in un percorso di formazione.

    Quasi un giovane su quattro in età tra i 15 e i 34 anni è in questa condizione: parliamo di oltre 3 milioni di ragazzi, un enorme potenziale sprecato, un’intera grande città fatta di ragazzi e ragazze senza una prospettiva di autonomia e realizzazione. Non solo. Nel 2022 abbiamo avuto il record storico di lavoratori precari. Perché in Italia il lavoro non solo manca, ma se c’è, molto spesso è provvisorio e sottopagato.

    Chiediamoci quindi: a chi ha la fortuna di averla, un’occupazione, è garantita «una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»? È ciò che prescrive l’articolo 36. La risposta netta è: troppo poco, e sempre meno. Il 13% dei lavoratori sono in condizione di povertà, i cosiddetti working poors, e secondo gli ultimi dati dell’Inps 4,6 milioni di lavoratori, il 29,7% del totale, guadagnano meno di 9 euro all’ora. Il salario minimo, un grande strumento di equità di cui oggi si dibatte, era di fatto già indicato nella Carta costituzionale, ma anch’esso disatteso.

    L’articolo 37 dice che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». Eppure, la parità salariale di genere è ancora un miraggio. Inoltre, siamo il Paese europeo, dopo la Grecia, con il più basso tasso di occupazione femminile, inferiore al 50%, ben 14 punti in meno della media europea. Oggi in Italia lavora meno di una donna su due e, nella fascia di età 25-49 anni, le donne con figli hanno un tasso di occupazione di 20 punti inferiore a quello delle donne senza figli.

    Anche quel pilastro democratico che è l’articolo 3, specie nella seconda parte, è di fatto disatteso. Gli ostacoli tra le persone e le loro prospettive di benessere sono spesso insormontabili: in Italia ci sono 5,6 milioni di persone che vivono in povertà assoluta, il 9,4% della popolazione. Un valore più che triplicato negli ultimi quindici anni. I minori in povertà assoluta sono un milione e 384mila, pari al 14,2% dei minori italiani, uno su sette. Nel frattempo, aumenta sempre di più la concentrazione della ricchezza, Il 5% più ricco degli italiani deteneva a fine 2020 una ricchezza superiore a quella dell’80% più povero. Per non parlare degli ostacoli materiali che incontra in Italia una persona con disabilità, tra fondi insufficienti, barriere architettoniche e clima discriminatorio.

    L’articolo 32 richiama un altro dei principi vitali di uno Stato democratico: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». E invece oggi in Italia i lavoratori con redditi alti hanno un’aspettativa di vita di quasi cinque anni maggiore rispetto a quelli con redditi bassi. Una sperequazione che deriva evidentemente da una diversa possibilità di accesso ai servizi sanitari e che durante la crisi Covid si è addirittura aggravata: con la pandemia sono aumentate del 30% le persone povere che hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie per motivi economici. Anche la salute, insomma, è questione di censo e fortuna. La bellezza, la vocazione a integrarci con la terra è nel nostro Dna di italiani, perché l’unicità del paesaggio italiano è frutto di un fragile miracolo geologico, ma anche di una lunghissima stratificazione di saperi, gesti creativi e conoscenze. I Costituenti lo avevano ben chiaro, tanto da mettere nell’articolo 9 un esplicito riferimento a questa grande ricchezza italiana.

    Ma chiediamoci: l’Italia, il Bel Paese, tutela davvero il suo paesaggio, il patrimonio storico e artistico? Anche qui la distanza tra il disegno dei Costituenti e la realtà del Paese è abissale. In Italia il consumo di suolo ha raggiunto il 7,11% della superficie, contro una media Ue del 4,2%. Solo nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 chilometri quadrati, più di 15 ettari al giorno. Un consumo di suolo scollegato anche dalle necessità demografiche, dal momento che i residenti stanno diminuendo… Le ferite inferte al paesaggio e all’ambiente, lo stato di abbandono in cui versano troppi beni artistici e culturali rappresentano un grande tradimento, un enorme spreco, un insulto alla nostra terra e alla nostra storia. L’iniziativa economica privata è libera, come prescrive l’articolo 41 della Costituzione, ma la selva burocratica, la complessità del sistema fiscale e la stratificazione di competenze con le quali si devono confrontare quotidianamente le nostre imprese rischiano di stritolare la libera iniziativa economica. Secondo il report “Doing business” della World Bank, l’Italia è al 128esimo posto su 190 Paesi per complessità e carico sulle imprese del sistema fiscale, al 97esimo per facilità nell’ottenere un permesso di costruzione, al 98esimo per la semplicità degli adempimenti necessari ad avviare un’attività.

    Infine, la scuola, il diritto allo studio. Davvero oggi in Italia «la scuola è aperta a tutti», come prescrive l’articolo 34? Solo formalmente. Anche quello enunciato nell’articolo 34 resta purtroppo un bellissimo principio di fatto non applicato. L’Italia è uno dei Paesi con la più alta dispersione scolastica in Europa. Nel nostro Paese, durante l’anno della pandemia, la dispersione scolastica è stata del 13,1% e ha coinvolto oltre 500mila giovani tra i 18 e i 24 anni. Con evidenti divari territoriali e di condizione socioeconomica della famiglia di origine. Chi nasce più povero o nelle parti più disagiate del Paese porta con sé un macigno che, con buone probabilità, gli impedirà di valorizzare le proprie potenzialità. Non parliamo della condizione dei figli degli immigrati che anche completando il ciclo degli studi e comunque, dopo anni di vita nel nostro Paese sono di fatto senza diritti ed esclusi dalla dimensione pubblica perché considerati non cittadini.

    Lavoro, giusta retribuzione, parità di condizioni tra donne e uomini, eguaglianza nelle opportunità economiche e sociali, diritto alla salute per tutti, tutela dell’ambiente, del patrimonio storico artistico e del paesaggio, diritto allo studio, libertà d’impresa, diritti di cittadinanza per le persone. Ecco ad esempio alcuni grandi terreni di iniziativa per attuare la nostra Costituzione e che non sono affatto presidiati. Sono quelli che mi colpiscono di più, perché sono i limiti che alimentando sfiducia a mio giudizio minano maggiormente la sostanza democratica del Paese e i principi di eguaglianza e sviluppo giusto sui quali – nelle aspettative dei Costituenti – avremmo dovuto edificare la nostra democrazia.

    Obiettivo 2023

    Di fronte a questa voragine così evidente tra principi e realtà, la missione è ancora più importante e attuale: la Costituzione non va contemplata, ma deve essere interpretata come forza propulsiva e spinta all’azione. Alla vigilia dei 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione italiana, apriamo una fase nuova, una funzione nobile e concreta della politica come quella dell’inveramento della Carta. Del suo confronto con le coordinate di un nuovo Mondo. Sono qui le radici della bella politica, quella che cambia le cose e può incontrare la passione di tanti giovani. Milioni di persone, nell’era globale e digitale, sono state travolte dal crollo delle certezze, dal naufragio dei servizi pubblici, si sono sentite abbondonate e quindi sole e, anche per questo, hanno scelto le opzioni populiste e nazionaliste. Le diseguaglianze erodono la qualità e la sostanza delle nostre democrazie. Le mettono a rischio.

    Nel 2023, possiamo svolgere un ruolo nazionale e democratico solo se alla rabbia generata dalla solitudine sapremo proporre un progetto che offra speranza. Dobbiamo chiamare a raccolta l’Italia per costruire un modello di sviluppo nuovo fondato sulla sostenibilità ambientale e sociale: cioè in grado di produrre ricchezza in forma nuova e diversa, ridistribuendola all’insegna della progressività e della giustizia, riducendo le distanze tra chi ha e chi non ha, tra chi è inserito nei circuiti della conoscenza e chi è rimasto fuori.

    Una crescita che si riaccordi con il patrimonio della natura e della bellezza. Per vincere, dobbiamo costruire intorno a questa visione le alleanze politiche e sociali, per vincere e non essere solo testimonianza. L’occasione per una svolta ce l’abbiamo a portata di mano. Il Pnrr rappresenta una possibilità di cambiamento senza precedenti nella storia del dopoguerra. Ma attenzione a illudersi che basti usare le risorse, per «aprire delle buche e poi richiuderle». Noi dobbiamo creare le condizioni per uno sviluppo strutturale e duraturo del nostro Paese. Coniugare sviluppo e rivoluzione green con un benessere diffuso; assicurare che la crescita tecnologica e digitale produca un accesso davvero di tutti a servizi che oggi ai più sono negati; garantire alle donne, finalmente, eguali diritti, eguali stipendi, eguali opportunità.

    In definitiva, come dare a tutti – a partire dalle nuove generazioni – la possibilità di realizzare con pienezza la propria persona, rimuovendo ogni possibile ostacolo, come previsto dall’articolo 3 della nostra Costituzione. Non distraiamoci da questo obiettivo fondamentale, che riguarda il futuro e la stessa sopravvivenza della nostra democrazia. Apriamo presto cantieri delle idee, incontriamoci, come abbiamo fatto con le Agorà volute da Enrico Letta. E intorno a questo processo, con un nostro punto di vista e con tutta la nostra passione, costruiamo – allora sì – un campo di forze politiche, sociali, culturali, di sindaci, di esperienze civiche e amministrative, che rimetta al centro le persone. Tutto ha un senso solo se si misura con la portata di questa sfida, in Italia, in Europa e nel mondo: far avanzare in maniera netta le conquiste reali e i valori della nostra potente Costituzione.

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