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    Accoglienza da incubo: così l’Italia calpesta i diritti dei profughi

    Credit: AP

    Con lo stato di emergenza, Meloni vuole potenziare i Centri per i rimpatri dove da anni le Ong denunciano continue discriminazioni. Come certifica anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha già sanzionato Roma per le condizioni degradanti delle strutture del nostro Paese

    Di Gaetano de Monte
    Pubblicato il 28 Apr. 2023 alle 07:00

    Tre minori stranieri non accompagnati e sbarcati sull’isola di Lampedusa a metà dello scorso febbraio, sono rimasti chiusi – senza poter uscire – all’interno dell’hotspot che ospita i migranti arrivati in Italia in Contrada Imbriacola, a Lampedusa, per oltre un mese, dopo l’identificazione, ma senza essere immediatamente ospitati in «una struttura governativa di prima accoglienza a loro destinate». Almeno così come prevederebbe la normativa italiana in materia, che stabilisce come nessun minore possa essere accolto o trattenuto nei centri di detenzione, negli hotspot, e nei Cpr, i Centri di Permanenza per i Rimpatri. Di più: la legge n. 47 del 2017 immagina una procedura unica e veloce per l’accertamento dell’età, con un provvedimento di attribuzione che è emesso dal Tribunale per i minorenni.

    Inoltre, il quadro normativo attualmente vigente stabilisce che tutti i minori stranieri non accompagnati, anche se non richiedenti asilo, devono essere accolti in una struttura del circuito ex Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che ora si chiama Sai, e che deve soddisfare gli standard minimi dei servizi e dell’assistenza forniti dalle strutture residenziali per minorenni. E invece in questo caso non è andata così, come racconta a TPI Annapaola Ammirati, esperta di detenzione amministrativa che lavora per il progetto in Limine dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione: «I tre minori trattenuti nell’hotspot di Lampedusa sono stati costretti in una condizione di isolamento sociale e di privazione della libertà personale per più di un mese. Hanno riferito di aver vissuto in spazi condivisi con cittadini adulti, in una situazione di promiscuità di genere, di sovraffollamento della struttura e di servizi igienici insalubri, senza aver ricevuto una specifica assistenza destinata alle esigenze della minore età e in funzione della loro vulnerabilità». 

    Una politica fallimentare

    Violazioni di questo tipo l’associazione ne ha documentate diverse, non soltanto in Contrada Imbriacola, dove ha sede uno degli hotspot istituiti nel settembre 2015 dalla Commissione Ue nell’ambito dell’Agenda europea delle migrazioni. Entrati in funzione inizialmente in quattro punti di sbarco, Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Taranto, gli hotspot sono stati istituiti negli anni anche ad Augusta, Catania, Reggio Calabria, Messina e Porto Empedocle. E in verità ogni grosso punto di sbarco, potenzialmente, lo è poi diventato.

    Il modello hotspot funziona come un criterio di differenziazione collettiva per nazionalità. «L’attività di monitoraggio e tutela legale che abbiamo condotto negli ultimi anni ha confermato la sistematicità dei profili rilevati e che sono stati oggetto di condanna proprio di recente dalla Corte europea per i diritti dell’uomo», ci spiega Ammirati. «Quelle a cui assistiamo da tempo nei centri del Sud Italia sono pratiche di classificazione informale e selezione illegittima dei cittadini stranieri, tra chi può accedere al diritto di asilo e chi no in base alla nazionalità, una selezione che avviene soprattutto nei confronti dei cittadini tunisini».

    «Queste sono forme di detenzione illegale, prassi lesive dei diritti che appaiono fortemente connaturate alla strategia hotspot, e che sono messe in atto dalle autorità di pubblica sicurezza e dagli altri attori che operano all’interno dei centri», prosegue la legale.

    Con la prassi, il modello hotspot è diventato un vero e proprio approccio di governo delle migrazioni, che, come hanno confermato a TPI altre decine di giuristi ed esperti di protezione internazionale, funziona così: «I migranti che arrivano vengono intervistati da un team composto da due esperti di Frontex, un mediatore culturale e un funzionario di polizia italiano che coordina il gruppo. Alle persone vengono poste alcune domande che gli intervistatori riportano nel cosiddetto foglio-notizie. In particolare una. Sei in Italia per ragioni economiche o per motivi politici?». 

    Il caso dei tunisini

    Ma è per i cittadini tunisini, in particolare, che esiste una vera e propria filiera delle violazioni. Che passa da una iniziale condizione di isolamento e privazione de facto della libertà personale in hotspot, fino al trattenimento nei Cpr, con il fine ultimo di garantire loro un celere rimpatrio, sacrificando così l’esercizio del diritto di asilo e di altri fondamentali diritti della persona nell’ambito delle politiche di esternalizzazione e di rapporti bilaterali tra Italia e Tunisia. A confermare questa ipotesi esiste un dossier del 2022 realizzato da Avvocati Senza Frontiere, dal Forum tunisino dei diritti economici e sociali e dalla stessa ASGI, che ha rivelato come la Tunisia rimane la principale destinazione dei cittadini rimpatriati dall’Italia, il 73 per cento. Non solo. Che la stessa percentuale di persone tunisine, poi, sul totale degli ingressi ogni anno, viene collocata all’interno dei Cpr, in cui la maggior parte degli stessi intervistati nello studio hanno dichiarato di aver subito abusi e violenze, e di non aver ricevuto neppure un materasso e una coperta all’ingresso.

    «Noi non possiamo accedere all’hotspot, come la maggior parte della società civile, ma quello che sappiamo e che ci viene raccontato da chi lo vive è un luogo dove i diritti non sono garantiti», ci conferma Marta Bernardini, coordinatrice di Mediterranean Hope, il programma migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che nella più grande delle isole Pelagie, dal 2016, ha costituito un Osservatorio. «A Lampedusa da anni assistiamo a una scena che si ripete, purtroppo. Centinaia, a volte anche migliaia di persone, che arrivano al Molo Favaloro, spesso in condizioni fisiche e psicologiche preoccupanti, e vengono trasferite in un centro che non è adatto a ospitarle. Una struttura che assomiglia più a una struttura detentiva, che ad altro, “nascosta” al centro dell’isola, dal quale le persone migranti non possono uscire», aggiunge Bernardini.  

    Verdetto di colpevolezza 

    È questo il modello hotspot su cui il governo Meloni sta puntando, con l’intenzione di ampliarlo. Lo racconta l’ordinanza della Protezione civile emanata il 16 aprile scorso che istituisce ufficialmente lo stato di emergenza per i migranti e la nomina a commissario straordinario del prefetto Valerio Valenti (a capo della segreteria quando al Viminale c’era il sottosegretario Antonio D’Alì, ora in carcere per mafia, come ha raccontato in solitaria il quotidiano Domani). È un approccio di governo delle migrazioni basato sui trattenimenti illegittimi, ingiuste detenzioni e successive espulsioni quello su cui il governo Meloni sta puntando. È il modello “trattenere ed espellere”, che proprio un paio di settimane fa i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) hanno bocciato con una sentenza di condanna.

    A soccombere nel giudizio della Cedu è stato il governo italiano del 2017, di centro-sinistra e guidato da Paolo Gentiloni. Il motivo è presto detto: per le prassi adottate nei confronti di quattro persone di origine tunisina che erano state trattenute per dieci giorni nell’hotspot dell’isola di Lampedusa e poi da qui fatte rimpatriare in tutta fretta dall’aeroporto di Palermo, il 26 ottobre del 2017.
    «Nelle quarantaquattro pagine della sentenza del caso “J.A. and Others versus Italy”, la Corte afferma diversi principi importanti che ben si rapportano anche alla situazione attuale in cui si trova la struttura di Contrada Imbriacola, a Lampedusa. In primo luogo che il sovraffollamento sistematico in cui si trova l’hotspot non giustifica le condizioni degradanti in cui vengono trattenute le persone», spiega a TPI l’avvocata Loredana Leo che insieme all’altra legale di Asgi, Lucia Gennari, ha curato il ricorso di quattro uomini tunisini, nati tra il 1989 e il 1993. E conclude: «Questa sentenza ristabilisce anche il principio dell’inviolabilità della libertà personale, cioè che nessuno nel nostro ordinamento può essere trattenuto oltre il tempo stabilito dalla legge senza titolo».

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