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    Matteo Ricci a TPI: “Sono il primo giallorosso d’Italia”

    Intervista al sindaco di Pesaro, coordinatore dei primi cittadini del Pd: “Col M5S c’è feeling, sono stato io il primo a farli entrare in giunta. Ma con questa legge elettorale la coalizione dovrà allargarsi”

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 22 Ott. 2021 alle 14:15 Aggiornato il 22 Ott. 2021 alle 15:12

    “Vuole un dato che non avete letto da nessuna parte?”.

    Cioè?
    “Da anni la maggioranza dei sindaci che si censiscono politicamente è di centrosinistra”.

    Vero.
    “I dati dicono che con queste amministrative tocchiamo un record”.

    In che senso?
    “Nel 2018, sugli 8mila comuni italiani,  c’era ‘solo’ il 52% di sindaci di sinistra: il minimo storico della serie recente”.

    E oggi?
    “Dopo questo voto siamo al 70%!”.

    Come lo spiega?
    “Il partito dei sindaci c’è già: è il Pd, è il centrosinistra”.

    Perché?
    “Abbiamo dimostrato una incredibile capacità coalizionale”.

    Quale?

    (Ride). “Siamo riusciti a tenere insieme tutto, ovunque. E a mettere in campo uomini credibili. Così oggi governiamo tre comuni su quattro in Italia”.

    E il centrodestra?
    “È al minimo storico: aveva candidati improbabili. Bastava guardarli in faccia, gente estratta dal cilindro. Il risultato è sotto i nostri occhi”.

    Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, coordinatore dei sindaci Pd. È tra gli uomini più vicini ad Enrico Letta, e spiega il risultato elettorale partendo dai territori. Poi, partendo dai municipi, spinge la sua analisi fino alla legge elettorale (con una sorpresa su Draghi).

    Cantate vittoria?
    “No. Questo dato conferma che il centrosinistra ha una classe dirigente forte, radicata e popolare. Ma…”.

    Cosa?
    “Nelle città dove il centrodestra ha candidati di prestigio – a Grosseto, a Pordenone o a Novara – malgrado questo clima positivo, vince al primo turno”.

    Cosa intende per “clima”?
    “Prenda due città emblematiche in cui si è vinto a sorpresa: Varese e Latina”.

    Perché proprio queste?
    “Varese è casa della Lega: da lì vengono Giorgetti, Maroni, Fontana. La Lega ha fatto uno sforzo sovrumano per riprendersi un comune che credeva “suo””.

    Non c’è riuscita.
    “No. Davide Galimberti, bravissimo e concreto, è stato rieletto sindaco”.

    E Latina?
    “Beh, è da studiare: è la città simbolo della destra nel Lazio, la città del fascismo, del neofascismo, dell’Msi. In questa città, al ballottaggio, il nostro Damiano Coletta, malgrado partisse svantaggiato, contro un avversario che aveva le liste al 53%, ha vinto in rimonta prendendo lui il 54% al ballottaggio. Ribaltamento totale. Una impresa”.

    C’è un segreto, secondo lei?
    “Sì, osare. Coletta, in una città di destra ha detto: o di qua con me o di là con loro.  Non si è mimetizzato. E così è riuscito ad intercettare la voglia di cambiamento”.

    Il gesto più forte è stato la nota polemica con Durigon.
    “L’essersi opposto a piazza a Mussolini. Aver impugnato in quella città la Costituzione, antifascista, legata ai valori della Resistenza, è stato puro coraggio. Ma posso farle un altro esempio?”.

    Certo.
    “Nelle mie Marche l’unico Comune importante dove si è votato era San Benedetto del Tronto”.

    E come è andata?
    “Erano divisi in tre candidati: hanno litigato prima e dopo. Alla fine sono riusciti ad arrivare terzi, quarti e quinti, mandando al ballottaggio con la destra addirittura una lista civica!”.

    E poi?
    “La destra è stata sconfitta: dal civismo, ma non dal centrosinistra”.

    Questo la fa pensare alle politiche.
    “Sì, la strada è obbligata”.

    Quale?
    “Con questa legge elettorale noi siamo costretti a costruire una coalizione. E non c’è dubbio, dopo questo voto, che il cardine di questa coalizione sia l’alleanza giallorossa”.

    Lei sa bene che nella minoranza ex renziana del Pd molti sognano un altro asse, fondato sul patto esclusivo con i centristi, magari con Calenda.
    (Sospiro). “E per fare cosa? Per perdere? I numeri di questo voto, proiettati su scala nazionale, e con il Rosatellum, ci dicono che si vince solo così. A loro Letta propone una “coalizione vasta” che tenga insieme tutti”.

    Ed è possibile?
    “Certo. Ma i centristi, a partire da Calenda, devono decidere cosa vogliono fare da grandi. Se iniziano dai veti non vanno lontani”.

    Alcuni sono tentati dal correre da soli.
    (Ride). “Con questa legge? Auguri”.

    Perché dice che l’alleanza con Conte è possibile?
    “Più passa il tempo, più l’antica ostilità tra il M5S è il Pd è un ricordo sbiadito. È nato un feeling di programmi e di classi dirigenti”.

    Mi faccia un esempio.
    (Sorride). “Uno perfetto: il mio”.

    Lei ha corso contro i grillini e ora ha costruito un’alleanza.
    “Siamo pionieri. Io sono stato il primo a portare il M5S in giunta”.

    E non era facile.
    “Per nulla. Io avevo preso il 58%, loro il 10.  Dopo il voto ho iniziato una dialogo con la loro leader, Francesca Frenquellucci. Ci univano tutte le ragioni che oggi ci legano a livello nazionale”.

    Lei le propose un assessorato.
    “E Francesca pagò, con coraggio, un prezzo enorme: nel 2020 era stata espulsa per quella scelta”.

    Oggi è stata reintegrata.
    “Ed è una interprete perfetta della nuova linea. Una riformista che porta nel nostro governo i valori del Movimento”.

    Come spiega questo salto?
    “L’esperienza del Conte 2 ha cambiato il quadro politico. Due dei sindaci più importanti di questa tornata – Gualtieri e Manfredi – vengono da quel governo”.

    Lei dice: è diventato un modello anche per i territori.
    “Senza dubbio. E, in più, europeismo e riformismo hanno spaccato il centrodestra fra l’ala più radicale e i centristi”.

    E poi?
    “Il sovranismo ha portato con sé l’appendice no vax. Ma nei territori le categorie elettorali storiche del centrodestra erano quelle che ci dicevano: “Vogliamo il green pass per lavorare””.

    Ristoratori, commercianti…
    “…E comuni cittadini: ora manca un solo elemento per completare il quadro”.

    La legge elettorale?
    “Sì. Il Rosatellum  è stato uno degli ultimi errori gravi della stagione renziana”.

    Perché?
    “Consegna il centro, mani e piedi, ai sovranisti. Li rende ostaggi nei collegi”.

    E che alternativa immagina?
    “La più semplice e rappresentativa: con un proporzionale puro e uno sbarramento al 5 per cento. Libereremmo il centro dai sovranisti. E il Pd diventerebbe forza unificante, attraendo Leu, ecologisti, liberali progressisti…”.

    E Calenda?
    “I liberali centristi potrebbero unificarsi”.

    E il M5S?
    “Si struttura intorno a Conte”.

    Ma la riforma elettorale si fa davvero?
    “O subito o mai. E lo capiamo nelle prossime settimane. Però le dico l’ultima verità”.

    Quale?
    “Con questa legge Draghi non ha una prospettiva politica nel governo e aumentano le tante spinte per portarlo  al Colle”.

    Dice?
    “Ovvio. Con il voto contrapposto tra coalizioni non c’è spazio per un governo tecnico”.

    E poi?
    “Se rimane questa legge noi dobbiamo avere una coalizione  elettorale da Calenda a Conte”.

    Perché?
    “Per avere un incarico sicuro il Pd deve arrivare due volte primo: primo partito, prima coalizione”.

    Può farlo?
    “Se cambia. I sindaci sono un modello per cambiare. Meno peso alle correnti, più radicamento dei territori”.

    Possibile?
    “Certo. Nei comuni la coalizione vasta c’è già. Il Pd vince con i sindaci in campo e Letta come coach”.
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