Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Politica
  • Home » Politica

    Cosa resta del M5S, 10 anni dopo l’ingresso in parlamento

    AGF

    Oggi il movimento risale nei sondaggi. Ma rispetto al 2013 è cambiato tutto. Leader, obiettivi, tabù. Ecco il nuovo partito di Conte. Che tra destra e sinistra ha scelto dove stare. Per ora

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 11 Feb. 2023 alle 07:00

    «Noi accusiamo la politica e i politici tutti di essere stati parte volontaria di un processo di impoverimento economico, culturale e mediatico di questo nostro Paese. Non abbiamo nulla a che spartire con altri schieramenti». Quando pronunciava queste parole (in un’intervista a Udinetoday)

    Walter Rizzetto era un neo-eletto deputato del Movimento 5 Stelle. Era il 27 febbraio 2013 e i grillini – come all’epoca tutti li chiamavano – avevano appena ribaltato i pronostici raccogliendo il 25% dei voti alle politiche e conquistandosi per la prima volta il biglietto d’ingresso al parlamento.

    Oggi, dieci anni dopo quell’intervista, Rizzetto è ancora a Montecitorio, ma si è spostato nei banchi di Fratelli d’Italia, di cui nel frattempo è diventato uno dei più conosciuti volti televisivi. Ha lasciato il M5S nel 2015 spiegando che gli era impedito dire quello che pensava. 

    Rizzetto è in buona compagnia. Tra espulsioni e uscite volontarie, nelle sue prime due legislature il movimento ha perso per strada ben 212 parlamentari sui 493 che aveva fatto eleggere: il 43%. Di questo elenco non fa parte – perché siede al parlamento europeo – Dino Giarrusso, il transfugo pentastellato di cui più si è parlato nelle ultime settimane.

    Dopo essere stato prima dimaiano e poi contiano, l’ex iena televisiva se n’è andato accusando il movimento di essere «diventato lo zerbino del Pd». Ora però cerca casa proprio nel Partito democratico: prima ha bussato alla porta di Elly Schlein, poi a quella di Stefano Bonaccini. E ancora aspetta che qualcuno gli apra.

    Ma del resto lo stesso Giuseppe Conte fino a un anno e mezzo fa nemmeno era iscritto ai Cinque Stelle, di cui poi ha preso saldamente in pugno le redini. E allora viene da chiedersi cosa resta oggi di quel movimento incendiario che dieci anni fa entrava per la prima volta in parlamento con lo sbandierato proposito di «aprirlo come una scatoletta di tonno»? 

    Debuttanti
    Il primo grande successo elettorale fu nel 2012 l’elezione di Federico Pizzarotti a sindaco di Parma. Sembrava l’inizio di uno tsunami destinato a travolgere l’Italia intera. E lo era, in effetti. Ma quattro anni dopo Pizzarotti si sfilerà dal M5S in aperta polemica con i vertici, che gli contestavano un avviso di garanzia (poi evaporato in un’archiviazione). 

    La prima espulsione di un parlamentare, invece, risale a poche settimane dopo le elezioni del 2013: il senatore Marino Mastrangeli, 41 anni, poliziotto originario di Cassino, fu cacciato per aver accettato di partecipare a un talk show televisivo di Barbara D’Urso.

    Era la fase in cui i Cinque Stelle si fidavano solo della Rete che disintermediava tutto, al punto che persino le consultazioni per formare un governo erano trasmesse online in streaming. L’ambientamento dentro i vetusti palazzi delle istituzioni non fu semplice, per i debuttanti grillini.

    I primi anni furono di duro apprendistato. Nel 2014 l’Italia era un Paese a trazione renziana e alle elezioni europee il movimento subì una battuta d’arresto (21% contro il 40% del Pd).

    Poi accadde che morì l’imprenditore-guru da cui tutto era iniziato, Gianroberto Casaleggio: «Nel medio-lungo termine – aveva previsto – i movimenti prevarranno sui partiti e la democrazia rappresentativa perderà significato». Chissà cosa penserebbe oggi, che di democrazia diretta, tra le fila pentastellate, nessuno parla più.

    Tuttavia quel periodo travagliato era il preludio di nuovi trionfi. Nella primavera del 2016 il M5S vinse a mani basse le comunali di Roma e Torino: «Il vento sta cambiando, signori», premoniva entusiasta la neo-sindaca capitolina Virginia Raggi.

    Eppure quel vento si sarebbe presto tramutato in bufera, almeno sul Campidoglio, dove i cinque successivi anni furono segnati da raffiche di dimissioni, gaffe, inchieste giudiziarie, fino alla mancata rielezione del 2021, con Raggi sconfitta e retrocessa a semplice consigliera comunale, a cui Conte ha pure negato una candidatura alle ultime politiche.

    In compenso, è diventata una dirigente di punta del movimento l’altra ex sindaca, la torinese Chiara Appendino, che ha astutamente evitato di ripresentarsi alle amministrative e dallo scorso ottobre occupa un seggio a Montecitorio.

    Scissioni e congiure
    La storia del M5S non si può capire senza quella dei suoi esponenti più in vista. Il caso più interessante da analizzare è senza dubbio quello di Luigi Di Maio da Pomigliano d’Arco, un millenial un po’ ingessato che sulle 189 preferenze raccolte alle parlamentarie del 2013 ha saputo costruire una carriera politica che in pochi possono vantare nella storia della repubblica.

    E pazienza se quella carriera rischia di essere già arrivata al capolinea, collassata su un errore da matita rossa, ovvero l’abiura del verbo sacro pentastellato – «Uno non vale l’altro» – pronunciata la scorsa estate, al momento della scissione dal movimento.

    Il percorso politico di Di Maio è stato segnato da balzi clamorosi: non solo quello esaltante da umile attivista a vicepremier, ma anche altri un po’ sfacciati, dai gilet gialli alla Farnesina, dalla Via della Seta cinese al fiero atlantismo, dalla richiesta di impeachment contro Mattarella all’innamoramento per Mario Draghi. Un innamoramento cieco, per giunta, che alla fine lo ha portato a bruciarsi.

    Di Maio è stato capo politico dei Cinque Stelle dal settembre 2017 al gennaio 2020. È sotto il suo comando che le truppe pentastellate hanno perso l’innocenza accettando di allearsi con gli odiati partiti tradizionali: prima la destra leghista, poi il Pd zingarettiano. Quello stesso Pd che Beppe Grillo chiamava «Pd meno L» per evocarne la sovrapponibilità al Partito della Libertà di Berlusconi. Quello stesso Pd che Di Maio – ancora lui – aveva additato come il «partito di Bibbiano» che «toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock» per «venderli».

    L’elezione di “Giggino” a leader è stata un punto di svolta nella storia del M5S. «Il nostro era un movimento orizzontale basato sull’attivismo territoriale», rimpiange una ex deputata anonima, «poi a un certo punto si è deciso che ci fosse un capo politico. E prima ancora (nel 2015, ndr) c’era stata la famosa lettera firmata da Roberto Fico e Alessandro Di Battista in cui si diceva che i meetup non rappresentavano i Cinque Stelle (si voleva evitare che fossero scalati da persone poco raccomandabili in cerca di visibilità, ndr)».

    «Quelli – continua l’ex parlamentare – sono stati i due momenti che hanno cambiato tutto. La forza del M5S non veniva da quei personaggi costruiti a tavolino dalla comunicazione interna, ma dall’attivismo sui territori. Che però, così, negli anni è venuto meno. Si è persa l’identità, finché poi sono arrivate le alleanze con gli altri partiti che hanno omologato i Cinque Stelle alle altre forze politiche».

    «C’è uno staff di comunicazione molto abile in quello che rimane del movimento», sottolinea amara l’ex deputata, «Rocco Casalino è estremamente bravo nel suo lavoro: le varie vittorie alle elezioni e la risalita nei sondaggi di oggi sono merito suo».

    Dopo il trionfo alle politiche del 2018 (33%) e il repentino crollo alle europee del 2019 (17%), seguiti dall’anno anomalo del lockdown pandemico e dall’accoltellamento di Renzi a Conte, nel 2021 il M5S ha chiuso il cerchio della contaminazione politica entrando a far parte di un governo di larghissima coalizione (con dentro persino Forza Italia) presieduto da Mario Draghi, l’ex governatore della Bce, incarnazione massima dell’establishment che per anni i grillini avevano contestato.

    «Così è troppo», ha riflettuto Alessandro Di Battista, il punto di riferimento dell’ala più battagliera del movimento, che a quel punto ha detto basta e si è tirato fuori. Idealista, appassionato, lontanissimo dall’ex compagno di mille avventure Di Maio, Di Battista aveva già rinunciato alla carica da parlamentare: il primo giro di giostra, nella legislatura 2013-2018, gli aveva fatto capire che i seggi vellutati del Palazzo non sono cosa per uno con la sua verve.

    Però, dopo le dimissioni da capo politico di Di Maio, aveva accarezzato l’idea di prendere lui le redini della carrozza: a impedirglielo – almeno secondo la sua versione dei fatti – fu «una congiurettina» ordita ai suoi danni dal resto della dirigenza pentastellata, preoccupata dal fatto che la base lo avrebbe eletto per acclamazione, o quasi.

    Tesi, questa, confermata da Davide Casaleggio, il figlio del co-fondatore del M5S, che ha a sua volta abbandonato la nave – da presidente della celeberrima piattaforma Rousseau, utilizzata per tutte le votazioni online degli iscritti – accusando il movimento di scarsa trasparenza e di aver violentato il concetto di democrazia interna.

    E così oggi Di Battista – che i suoi detrattori chiamano «il Che Guevara di Roma Nord»– rappresenta quel vasto popolo di ex attivisti o semplici elettori a cinque stelle delusi per la strada che ha preso la creatura nella quale avevano creduto, e che a tratti li aveva fatti sognare.

    Catto-ecologisti
    Ma la decisione di sostenere Draghi – sebbene avallata dal solito discusso voto online – era stata calata dall’alto dal grande capo Beppe Grillo, la figura più importante e al tempo stesso la più enigmatica nella storia del movimento.

    La macchina si è messa in moto a partire dai suoi monologhi anti-convenzionali nei palazzetti dello sport, poi sono venuti i “Vaffanculo Day” nelle piazze gremite e di lì il salto fin dentro le istituzioni è stato breve. Favorito anche da una classe politica che aveva colpevolmente sottovalutato il fenomeno dell’indignazione popolare contro la “casta” (ricordate quella sgangherata profezia di Piero Fassino? «Grillo, se vuol fare politica, fondi un partito e vediamo quanti voti prende»).

    Con il passare del tempo «l’Elevato», come lui stesso ironicamente si definisce, è passato dall’essere capo-popolo-agitatore-di-folle a evanescente padre-padrone che agisce nell’ombra e si esprime pubblicamente solo attraverso messaggi criptici.

    Nell’estate 2021 è arrivato a un centimetro dalla rottura con Conte, poi i due hanno concordato una tregua armata che dura tutt’ora.

    Oggi il Movimento 5 Stelle è, di fatto, il partito di Giuseppe Conte, un avvocato pugliese – ma ben radicato a Roma – che fino al 2018 era un illustre sconosciuto.

    La sua vita è cambiata in quei giorni di maggio di cinque anni fa, quando Di Maio – ottenuto il Sì dell’alleato in pectore Salvini – gli chiese di fare il presidente del Consiglio: lui accettò e poche settimane dopo era al vertice Nato di Bruxelles a colloquio con il presidente americano Donald Trump, con il quale instaurò fin da subito un buon rapporto (sebbene quello lo chiamasse «Giuseppi»).

    Nella sua doppia esperienza a Palazzo Chigi, prima quella tinta di gialloverde, poi quella giallorossa, Conte ha dimostrato soprattutto di possedere ottime doti di mediatore: non ha mai sfoderato una precisa visione politica, ondeggiando dal sovranismo all’europeismo, ma ha saputo portare a casa almeno un paio di misure bandiera per il M5S (il Reddito di cittadinanza e il Superbonus edilizio) e soprattutto il Recovery Fund, rispetto al quale anche gli avversari gli hanno riconosciuto merito. Eppure, sebbene fosse espressione dei Cinque Stelle, il Conte premier non era nemmeno iscritto al movimento. 

    È stato dopo la sua caduta, provocata dalla sfiducia renziana, che Grillo lo ha invitato ad assumere la guida. Era il 2021 e i pentastellati – sconquassati dall’aver partecipato a tre governi diversi in tre anni – attraversavano la fase più difficile di sempre: snaturati, disorientati, sfilacciati al loro interno, ormai subalterni al Pd col quale dal 2019 era stata saldata un’alleanza più o meno strutturale proprio sul nome di Conte (indicato da Zingaretti come «punto di riferimento dei progressisti»).

    Appena insediatosi, l’ex presidente del Consiglio ha messo mano allo statuto M5S (che già era stato cambiato una prima volta nel 2019 da Di Maio insieme a Casaleggio junior) facendo infuriare il garante Grillo, con il quale poi – come detto – ha comunque trovato un’intesa.

    Per circa un anno il neo-leader ha navigato a vista badando essenzialmente a evitare brutti scherzi dall’interno, poi – a partire dalla primavera 2022 – ha cambiato atteggiamento, iniziando a contestare in maniera sempre più dura alcune scelte del Governo Draghi, fino a provocarne la caduta, con conseguente convocazione di elezioni anticipate.

    Conte sapeva che la sua opera di logoramento nei confronti di Super Mario avrebbe allontanato i Cinque Stelle dal Pd (nel frattempo passato nelle mani di Enrico Letta). E così l’alleanza giallorossa, che aveva retto per tre anni, si è rotta proprio alla vigilia del voto.

    Ma, contrariamente a quello che ci si sarebbe potuti aspettare, a pagarne il prezzo più alto sono stati soprattutto i dem, mentre la corsa in solitaria – imperniata sulla difesa di quel vecchio cavallo di battaglia che è il Reddito di cittadinanza – ha restituito ossigeno vitale al movimento. Che addirittura adesso nei sondaggi risulta davanti al Pd.

    Intanto il M5S ha sfatato un altro dei suoi storici tabù accendendo al finanziamento pubblico tramite il 2 per mille. Non solo: gli ex senatori Vito Crimi e Paola Taverna sono stati assunti come collaboratori dei gruppi parlamentari e l’ex presidente della Camera Roberto Fico ha mantenuto un ufficio con staff a Montecitorio, alla faccia del «no ai politici di professione».

    E, a dispetto del «non siamo né di destra né di sinistra», Conte sta pilotando i Cinque Stelle nel campo progressista, con vista aperta su un certo mondo cattolico (dalla Comunità di Sant’Egidio alle Acli) e sul gruppo europeo dei Verdi, ai quali l’ex premier vorrebbe ora iscrivere il movimento.

    Il fatto, secondo la politologa Nadia Urbinati, che insegna alla Columbia University di New York, è che «la storia del M5S è contenuta tutta in una contraddizione: nasce come movimento anti-partito, ma partecipando alle elezioni è automaticamente diventato un partito».

    «L’antipartitismo – spiega Urbinati – è un fenomeno sempre presente nelle democrazie, che trova più spazio quando i partiti decadono come forme organizzate di partecipazione o perdono credibilità presso gli elettori, ma poggia su fondamenta sbagliate, perché senza partiti non ci può proprio essere democrazia elettorale».

    E d’altro canto «non si può competere per le elezioni senza essere un gruppo politico o partito. È qui che sta la contraddizione dei Cinque Stelle: erano un non-partito, sono diventati addirittura un partito di governo. Fra l’altro, portando avanti una linea politica all’insegna del solo opportunismo: basti pensare che nel giro di quattro anni si sono alleati prima con la destra, poi con la sinistra e poi hanno fatto parte di un governo di larga coalizione».

    «Oggi – conclude la politologa – il M5S è il partito personale di Conte, un uomo che non viene dalla politica e non ha una struttura di discorso politico, ma va dove lo portano le maggiori probabilità di raccogliere consenso: oggi a sinistra, ma domani, chissà».

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version