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    L’insana ossessione italiana per i tecnici (di Thomas Fazi)

    Di Thomas Fazi
    Pubblicato il 5 Feb. 2022 alle 11:54 Aggiornato il 5 Feb. 2022 alle 11:57

    La beatificazione a reti unificate di Mario Draghi che ha accompagnato la sua discesa in politica e tutto il suo primo anno di governo, e che oggi porta tutti, con pochissime eccezioni, a concordare sul fatto che la salvezza del Paese dipende dalla permanenza di Draghi al potere (al massimo fino all’altro giorno ci si domandava se potesse meglio servire la patria nel ruolo di presidente del Consiglio o della Repubblica) è il sintomo di una malattia che da tempo affligge l’Italia: l’ossessione per i cosiddetti “tecnici”.

    Sarebbe a dire, l’idea secondo cui, nei momenti difficili, la “politica politicante” debba farsi da parte e cedere il posto a figure tecniche, appunto, che abbiano le “competenze”, l’”autorevolezza” e la “neutralità”, in virtù della loro non appartenenza diretta a schieramenti politici, per adottare le scelte “difficili ma necessarie” per superare la crisi.

    Non a caso l’esaltazione dell’establishment politico-mediatico nei confronti di Draghi non trova giustificazione nell’adesione a una visione o a un progetto politico di fondo (anzi, quasi nessuno sa quale sia l’opinione di Draghi sulla maggior parte delle questioni che animano il dibattito pubblico); trattasi piuttosto di un consenso per certi versi pre-politico basato unicamente sull’“autorevolezza”, la “preparazione” e il “peso internazionale” dell’ex banchiere della Bce (questa almeno la versione ufficiale).

    È un’idea, quella dei tecnici al potere, che riflette una visione profondamente antidemocratica e fatalista, nonché tragicamente ingenua, della politica, secondo cui quest’ultima non rappresenterebbe la scelta di determinate misure tra un ventaglio di opzioni che sono sempre disponibili, sulla base di una dialettica tra partiti e altri soggetti politici che si fanno (o meglio dovrebbero farsi) portatori di orizzonti etico-valoriali e interessi (di classe, ma non solo) differenti.

    Ma rappresenterebbe, in ultima analisi, la mera gestione di problemi tecnici che ammettono una sola soluzione possibile, da cui l’uso di termini come “ingegneria politica”. Da qui l’idea – a dir poco sciocca – della presunta neutralità del tecnico, come se un Draghi non sia portatore a sua volta di precisi interessi e orientamenti ideologici; nel caso la storia di Draghi non fosse sufficiente a fugare eventuali dubbi a riguardo, basti vedere i consulenti economici di cui si è circondato a Palazzo Chigi – perlopiù provenienti da roccaforti ultraliberiste come la Fondazione Bruno Leoni e la Bocconi – oltre che, ovviamente, le politiche economiche, altrettanto liberiste, adottate dal suo governo: privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, tagli ai sussidi pandemici, riforma fiscale a vantaggio delle fasce più abbienti ecc… Alla faccia della neutralità……

    Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui.

     

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