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    Tanti esultano per lo sfacelo grillino, ma l’implosione dei 5 Stelle non conviene a nessuno

    Di Roberto Bertoni
    Pubblicato il 20 Feb. 2021 alle 17:42 Aggiornato il 20 Feb. 2021 alle 17:45

    Sono stati in molti ad accostare, negli anni, il M5S a una supernova: un astro che, in seguito a una reazione termonucleare, implode ed esplode.

    Del resto, lo stesso Beppe Grillo, all’inizio dell’avventura movimentista, aveva teorizzato una rivoluzione incruenta: la mutazione radicale del panorama politico e, infine lo scioglimento della sua creatura, divenuta inutile al compimento della palingenesi.

    Era un sogno utopistico, uscito dalla mente geniale e un po’ folle di Gianroberto Casaleggio, le cui intuizioni hanno indubbiamente modificato il contesto politico e destrutturato un sistema che solo una decina di anni fa appariva immutabile.

    Ora il M5S è a un bivio, quello decisivo. Parlare di scissione non ha senso: non è un partito tradizionale, non ammette correnti organizzate che si danno battaglia e, soprattutto, non ha leader storici riconosciuti come, ad esempio, Bersani e D’Alema, illustri fuoriusciti dal PD in quanto non ritenevano più possibile, a ragione, stare nella stessa casa di Renzi dopo l’ubriacatura referendaria e turboliberista del fiorentino alla guida del partito e l’incapacità del medesimo di farsi da parte una volta fallita clamorosamente la prova decisiva.

    Il M5S è qualcosa di completamente diverso. E per comprenderne i malumori e le sofferenze di queste ore bisogna compiere un excursus storico dalle origini ai giorni nostri.

    Il Movimento nacque nel 2009, dopo i V-Day del 2007 a Bologna e del 2008 a Torino, due città storicamente di sinistra in cui il leader carismatico di quello che all’epoca era solo un gruppo di pressione parlò espressamente di onestà in politica e libertà d’informazione, scegliendo oltretutto due date cruciali nella vicenda italiana: l’8 settembre e il 25 aprile, il collasso del Paese e la liberazione dal nazi-fascismo.

    Poi Grillo provò a candidarsi alla guida del PD e, dopo essere stato respinto, il 4 ottobre 2009, nel giorno di San Francesco (quattro anni prima dell’ascesa di Bergoglio al soglio pontificio), fondò, al Teatro Smeraldo di Milano, il Movimento 5 Stelle.

    Insomma, nasce a sinistra. La destra viene dopo, negli anni in cui il berlusconismo, ormai in fase calante, dà il peggio di sé e apre una prateria al malcontento diffuso che il PD bersaniano, purtroppo, non riesce a intercettare.

    Il governo Monti, l’ideale napolitaniano delle larghe intese e il minestrone indigesto che ne segue fanno il resto, conducendo un soggetto che contiene al suo interno la qualunque a un risultato che Grillo stesso accoglie con stupore e, anche se non lo ammetterà mai, con fastidio, poiché una compagine di quelle dimensioni, senza una struttura e un qualcosa che ricordi le sane dinamiche della politica, è ingestibile.

    Da qui le espulsioni, i malumori, la gestione sovietica delle ospitate in televisione e dei rapporti, mai facili, con il mondo dell’informazione nonché la netta sconfitta alle Europee del 2014, contro il renzismo nella fase di massimo fulgore, e la sostanziale irrilevanza nelle questioni che contano, compresa l’elezione del capo dello Stato.

    Certo, chissà che storia staremmo qui a raccontarci se Bersani avesse accettato la sfida folle ma necessaria di Rodotà nel 2013. Ben poco sarebbe cambiato, invece, se i grillini, nel 2015, avessero deciso di convergere su Mattarella anziché impuntarsi su un nobile candidato di bandiera come Imposimato, senz’altro una persona perbene ma senza alcuna possibilità concreta di salire al Colle.

    Il 2018 è stato il battesimo del fuoco dei 5 Stelle. Agevolati dalla catastrofe renziana e ormai ben più smaliziati rispetto ai primi tempi, con liste ricche di personalità chiare e riconoscibili e non più solo di illustri sconosciuti, talvolta volenterosi, talvolta improponibili, Di Maio e soci si arrampicano fino alla vetta dolomitica del 33 per cento, vedendosi costretti da un improvvido colpo di coda di Renzi ad andare a braccetto con Salvini, esaltando la componente filo-leghista e umiliando la sinistra interna, con annessi addii ed espulsioni a raffica nonché uno strapotere del leader leghista che riusciva a rubare la scena anche se la maggior parte dei provvedimenti approvati portavano la firma dei pentastellati.

    Il benedetto Papeete dell’estate 2019, fra cubiste, Mojito e altre trovate stravaganti che poco si addicono, oggettivamente, al ruolo di un ministro dell’Interno, ci ha liberato momentaneamente della presenza di Salvini e del suo cattivismo di governo e ha consentito al PD di tornare al potere e al presidente Conte di dimostrare di essere una persona assai migliore di com’era parsa all’inizio.

    La crisi delle ultime settimane è nota a tutti ed è inutile spendere altre parole per commentare l’incommentabile. Il punto è che il M5S è lo specchio fedele della crisi di questo decennio. Non è anti-politica ma desiderio di una politica diversa che, però, non riesce a esprimersi, ad accettare le logiche complesse della politica, a dotarsi di mezzi d’informazione e strutture adeguate a portare avanti le proprie idee.

    Senza contare che questo vascello corsaro si è trasformato, troppo presto, in un transatlantico, senza avere tuttavia i motori adeguati a far muovere una nave di quelle dimensioni.

    Volendo restare nella metafora del Titanic, a ciò si è aggiunta la presenza imprevista di un iceberg chiamato pandemia sul percorso di un’imbarcazione tutt’altro che inaffondabile e adesso spaccata a metà, con scialuppe insufficienti a mettere in salvo tutti i passeggeri, anche per via del taglio dei parlamentari, peraltro bandiera dello stesso M5S, e un cupio dissolvi che rischia di annientare una creatura di cui solo tre anni fa si celebrava con toni enfatici il trionfo.

    A Grillo va dato il merito di aver intuito, prima e meglio di altri, la natura effettiva della società liquida in cui viviamo, di aver compreso che sono saltati tutti gli schemi ideologici del Novecento e che ormai determinate barriere, compreso il concetto di arco costituzionale per escludere i fascisti dal governo, sono venute meno anche nell’immaginario collettivo.

    Peccato che le sue intuizioni, oggi annegate in un oceano di governismo conformista e di ridicola riproposizione delle purghe staliniane in salsa internettiana, sia stata anche la causa della sconfitta, forse definitiva, di un equipaggio che non ha mai sciolto la riserva su cosa fare da grande, su dove schierarsi, da che parte stare, quali compagni d’avventura scegliersi e quali rifiutare, il tutto in nome dei temi, di battaglie nobili ma che, per avere un senso e un futuro, hanno bisogno di un minimo di ancoraggio alla realtà.

    Ora tutti i renziani, in formato politico e, soprattutto, giornalistico, gongolano. Al che vien voglia di ricordare loro ciò che sosteneva Bobbio a proposito del comunismo, nei giorni che seguirono l’abbattimento del Muro: la fine di quell’esperienza non aveva affatto esaurito le ragioni storiche per cui essa era nata.

    Allo stesso modo, la dissoluzione del grillismo non esaurisce certo il desiderio di una politica onesta, di un’informazione all’altezza, di un minimo di sobrietà e, meno che mai, della necessità di accantonare il quarantennio inglorioso del liberismo per restituire a tutti i cittadini la dignità perduta e far sì che, nel momento più duro, nessuno sia lasciato indietro.

    Godere per lo sfacelo grillino è, dunque, segno di profonda miopia. Se il Movimento implodesse, come una supernova per l’appunto, quei voti confluirebbero nell’astensione, nella destra peggiore o in qualche esperienza poco raccomandabile, con strane aspirazioni anti-europeiste e una visione fumettistica dello stato delle cose.

    Il PD, oltretutto, non avrebbe più alleati, a meno che qualcuno non creda ancora al macronismo che fu, tanto caro alle Bonino e ai Calenda ma ormai ampiamente superato pure in Francia.

    La destra, dal canto suo, non avrebbe rivali e, terminata la quaresima draghiana, Biden o non Biden, tornerebbe al sovranismo nazionalista che le è proprio, con la componente liberale di Forza Italia ormai ridotta al lumicino e, pertanto, obbligata a svolgere un ruolo ancillare.

    E lo stesso Draghi, infine, ne verrebbe gravemente danneggiato, in quanto non avrebbe più una maggioranza politica ma unicamente numerica che, dall’inizio del semestre bianco, renderebbe il suo governo un misto di Caporetto e Waterloo, mettendone forse a repentaglio persino l’ascesa al Quirinale.

    La parentesi contiana era riuscita a includere nel gioco democratico un elemento che, agli esordi, coltivava la distopia della democrazia diretta. Far entrare tutti in ballo, superare le conventio ad excludendum e far respirare il Paese con due polmoni, una destra civile e una sinistra autenticamente progressista, è da sempre il sogno dei democratici e dei riformisti veri, eredi della concezione morotea secondo cui, al termine di un incontro fra opposti apparentemente inconciliabili, qualcosa dell’altro rimane in entrambi.

    Un sogno che Moro ha pagato con la vita e Bersani e Conte con due dolorose dimissioni. Le conseguenze di queste sconfitte sono sotto gli occhi di tutti.

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