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    Ieri l’Italicum era “la fine della democrazia”, oggi senza una legge elettorale a doppio turno non avremo mai un governo

    Matteo Renzi con l'ipotetica scheda elettorale dell'Italicum

    Come dimostra il teatrino delle consultazioni, in Italia non esiste una cultura politica abbastanza matura per permettere la formazioni di un governo di coalizione sulla base di una legge elettorale proporzionale

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 8 Mag. 2018 alle 17:03 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 02:24

    Sull’attuale stallo, apparentemente insuperabile, per la formazione di un nuovo governo, ne abbiamo sentite di tutti i colori.

    Sul banco degli imputati è stata messa soprattutto la legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum: una norma che, si dice da più parti, impedisce a chi vince le elezioni di poter governare.

    Tra i più attivi nel contestare la legge elettorale ci sono gli esponenti del Movimento Cinque Stelle. In realtà, come vi avevamo già spiegato in questo articolo, una simulazione della società di ricerca Youtrend ha mostrato come con gli attuali voti, qualunque sistema elettorale si fosse utilizzato, non ci sarebbe stata una maggioranza per governare.

    Qualunque sistema, tranne uno: l’Italicum, la contestatissima legge elettorale bocciata (in alcune sue parti) dalla Corte Costituzionale e su cui si è discusso moltissimo all’epoca del referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale.

    In quel periodo, l’argomento più diffuso da parte del variegato fronte del no era che il combinato disposto tra la riforma costituzionale e la legge elettorale avrebbe provocato una “deriva autoritaria”, la “fine della democrazia”.

    Ciò che veniva maggiormente criticato, in quella legge, era il fatto che il premio di maggioranza potesse andare, al ballottaggio, anche a un partito che avesse ottenuto un numero di voti esiguo al primo turno.

    Come è accaduto in Francia con il partito En Marche! di Emmanuel Macron, in linea teorica uno schieramento avrebbe potuto ottenere anche solo il 20-25 per cento dei voti per accedere al ballottaggio e accaparrarsi, al secondo turno, un robustissimo premio di maggioranza.

    Un meccanismo che, appunto, sembrava eccessivamente distorsivo del principio di rappresentatività.

    La Consulta, nella sua sentenza, aveva accolto alcune di queste perplessità, bocciando il meccanismo del ballottaggio perché con l’Italicum “una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito al primo turno un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno”.

    Non solo, ma i giudici costituzionali facevano rilevare come “le disposizioni censurate riproducono così, seppure al turno di ballottaggio, un effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva individuato nella sentenza n.1 del 2014, in relazione alla legislazione elettorale previgente”, ovvero al Porcellum, bocciato proprio perché il premio di maggioranza non era ancorato ad una soglia minima di voti ottenuti.

    Si potrebbe discutere all’infinito sui principi costituzionali che hanno animato queste sentenze. Diversi giuristi e costituzionalisti hanno contestato l’idea che la Consulta possa sostituirsi al legislatore, basando comunque le sue sentenze su un’interpretazione del dettato costituzionale (in nessuna parte della Costituzione, come ovvio, c’è scritto che non si può votare con un sistema a doppio turno).

    Indipendentemente da questo, resta il fatto che, allo stato attuale, solo una legge che preveda il ballottaggio sarebbe realmente in grado di garantire la governabilità, permettendo di superare uno stallo che, altrimenti, potrebbe durare ancora molto a lungo.

    Una legge elettorale a turno unico con un premio di maggioranza inferiore al 40 per cento, infatti, verrebbe certamente bocciata dalla Consulta per le stesse ragioni che hanno portato all’incostituzionalità del Porcellum.

    Per il doppio turno, invece, una scappatoia ci sarebbe. Nella sentenza sull’Italicum, infatti, la Corte Costituzionale aveva legato la bocciatura del ballottaggio al sistema monocamerale che sarebbe stato introdotto con la riforma costituzionale (il già citato combinato disposto legge elettorale-riforma costituzionale).

    Nella sentenza c’era scritto infatti che la Corte Costituzionale “non può esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive”.

    In tale contesto la Costituzione “se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee”.

    Tradotto: con un sistema bicamerale e una legge di impianto realmente maggioritario basata su collegi uninominali, il ballottaggio potrebbe superare la prova della Consulta.

    Forse è per questo che, a differenza di un anno e mezzo fa, ora sia il centrodestra che il M5s sembrano molto più disponibili a considerare una riforma elettorale che vada in questa direzione.

    Del resto, come visto attraverso la simulazione di Youtrend, qualsiasi legge a turno unico determinerebbe un risultato analogo a quello attuale.

    L’ultima considerazione che si impone riguarda l’opportunità, nel sistema politico italiano attuale, di avere una legge elettorale di impianto proporzionale.

    Come è ampiamente emerso nel corso delle consultazioni, le forze politiche in campo in questo momento non sono in grado di garantire la formazione di governi di larghe intese.

    Non lo sono per ragioni strutturali, legate alla loro proposta politica, all’elettorato che vogliono rappresentare, alla natura almeno in parte populista che le anima.

    Già i partiti presunti moderati, in passato, non sono stati in grado di dar vita a governi di coalizione stabili, rendendo l’Italia tristemente nota in tutto il mondo come il paese che cambia un esecutivo all’anno.

    Questo stato di cose non è destinato a cambiare, quanto piuttosto ad aggravarsi, come il teatrino delle consultazioni ha dimostrato.

    Se in molti altri paesi esiste una cultura politica matura, che permette a schieramenti provenienti da aree politiche differenti di mettersi d’accordo per governare insieme (basti pensare che in Germania persino gli iscritti della Spd hanno votato a favore di un governo con la Merkel), in Italia non c’è consociativismo che possa sopravvivere a lungo all’istinto populista del leader di turno.

    Forse persino la Corte Costituzionale dovrebbe cominciare a ragionare su questo.

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