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    Sul gas Draghi sbaglia i conti: ecco perché Nord Africa a Medio Oriente non basteranno a compensare la Russia

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 29 Apr. 2022 alle 12:33 Aggiornato il 29 Apr. 2022 alle 12:34

    «Volete il nostro gas naturale? Mettetevi in fila ad aspettare, prego. E preparate il blocchetto degli assegni». I destinatari del messaggio siamo noi europei. A recapitarcelo sono i Paesi esportatori di metano, quelli a cui ci stiamo rivolgendo per reperire altrove il combustibile che oggi compriamo dalla Russia e di cui – presto o tardi, per volere nostro o di Putin – dovremo fare a meno. Sostituire il gas di Gazprom con quello africano, mediorientale o azero è un’operazione che presenta mille incognite. E che nella migliore delle ipotesi richiederà tempo e soldi. Tanti soldi. Ci troveremo in concorrenza con le crescenti economie asiatiche in una gara a chi offre di più per accaparrarsi il prezioso gas. Una spirale pericolosa, con il rischio molto concreto, per giunta, di veder naufragare la transizione ecologica in cui ci eravamo imbarcati sotto l’egida di Bruxelles.

    Crisi di sistema

    Prima di tutto, però, sgombriamo il campo da un equivoco: «Questa è una crisi energetica strutturale, che prescinde dal conflitto in Ucraina», rimarca Francesco Sassi, ricercatore in geopolitica e mercati energetici presso il centro Rie (Ricerche industriali ed energetiche) di Bologna e autore di numerosi articoli sul tema pubblicati su Rivista Energia. I metanodotti russi, in effetti, hanno continuato per tutto l’inverno a pompare gas puntuali verso Italia, Germania & Co. Se i prezzi sono così elevati (+500% rispetto a un anno fa sul mercato finanziario Ttf) «è principalmente perché l’offerta non basta a coprire una domanda che a livello mondiale, dopo il Covid, è ripartita forte, in particolare in Asia». Poi, certo, anche l’eventualità di un embargo anti-Mosca paventata da alcuni in Europa può aver ulteriormente soffiato sui rialzi. Ma la crisi era già in atto mesi prima dell’invasione putiniana.

    E ora veniamo all’Italia. Nel 2021 abbiamo importato dalla Russia 29 miliardi di metri cubi di gas, pari a circa il 40% del nostro consumo nazionale. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani aveva dichiarato a marzo che per renderci indipendenti dalle forniture di Gazprom ci sarebbero serviti almeno 24 mesi. Poi, la scorsa settimana, il ministro ha corretto il tiro: 18 mesi. Fattibile? Molto probabilmente no. Anzi, secondo Sassi «questi annunci gettano ulteriore pressione e instabilità sui mercati, favorendo nuovi rincari dei prezzi». Il Governo nell’ultimo mese ha avviato colloqui serrati con Stati per lo più africani con l’obiettivo di stringere nuovi accordi per la fornitura di metano. Stando alle cifre che circolano, il premier Draghi e i ministri Cingolani e Di Maio si aspettano 9 miliardi di metri cubi in più entro il 2024 dall’Algeria, 6 miliardi entro il 2023 da Angola e Congo, 4 miliardi dal Qatar, 3 dall’Egitto e 10 dall’Azerbaijan. Ma i conti sembrano avventati.

    Le incognite

    Cominciamo dall’Algeria, un Paese ricco di riserve e ben collegato con l’Italia attraverso il gasdotto Transmed, tanto che già oggi è il nostro secondo fornitore dopo la Russia con circa 20 miliardi di metri cubi all’anno. Sulla carta è perfettamente logico rivolgerci ad Algeri. Peccato, mette in guardia Sassi, che «negli ultimi 15 anni l’industria locale degli idrocarburi è andata in crisi a causa di complicanze legislative e mancanza di investimenti: la produzione è stagnante e, come hanno ammesso gli stessi algerini, le possibilità di aumentare i volumi delle estrazioni sono molto limitate, almeno nel breve periodo». Il Governo italiano, come detto, punta a ottenere entro un anno e mezzo 9 miliardi di metri cubi aggiuntivi: significherebbe incrementare l’export del 50%. Improbabile. Servirebbero quantomeno nuovi investimenti e a sostenerli dovremmo essere (anche) noi. Il ché però vorrebbe dire incatenarci mani e piedi per lungo tempo ai nostri dirimpettai nordafricani: a differenza del petrolio, infatti, ricorda Sassi, «il gas necessita di infrastrutture che sono molto costose e legano il Paese importatore e quello esportatore nel lungo periodo». Una prospettiva che cozza in pieno contro il progressivo abbandono delle fonti fossili dettato dalla Commissione europea. Non solo: «In Algeria – spiega ancora l’esperto – il gas è utilizzato quasi come uno strumento di politica sociale: viene prodotto a basso costo e distribuito alla popolazione a prezzi scontatissimi. E fin prima della crisi politica del 2019, i consumi interni sono in forte aumento». C’è insomma da considerare anche la politica domestica dei singoli Stati esportatori.

    Quanto ad Angola e Congo, Sassi chiarisce subito che si tratta di due Paesi «la cui capacità di produzione ed esportazione è ad oggi limitata»: difficile pensare che in tempi brevi possano fornirci 6 miliardi di metri cubi, «a meno che, anche qui, non ci sia la volontà da parte nostra di investire nel lungo periodo». Discorso diverso va fatto per l’Egitto. Al netto di qualsiasi valutazione etica sul caso Regeni, il regime di Al-Sisi «dal 2016 ha iniziato nuovamente a esportare gas naturale liquido dopo un periodo di lungo declino dell’industria degli idrocarburi e da anni viene indicato come possibile nuova riserva di gas per l’Europa per via dei nuovi giacimenti scoperti nel Mediterraneo». «Ma ad oggi – fa notare Sassi – i volumi sono limitati e i principali sbocchi commerciali sono l’Asia e la Turchia». All’Asia guarda storicamente anche il Qatar: «Circa l’80% delle sue esportazioni di gas liquido sono destinate a società dell’Estremo Oriente. Il Paese ha riserve gigantesche ma non potrà aumentare di molto le vendite prima del 2025, anno nel quale dovrebbero essere completati ingenti investimenti infrastrutturali. E proprio per rientrare dalle alte spese sostenute, l’emirato pretende accordi di lungo periodo».

    Poi c’è l’Azerbaijan, connesso all’Italia tramite il contestato gasdotto Tap, che arriva in Puglia. Raddoppiare gli attuali rifornimenti da Baku, spiega Sassi, sarà impresa ardua: «Il Paese ha rapporti molto stretti con la Russia, che nel 2020 ha anche fatto da mediatrice per porre fine alla guerra con l’Armenia in Nagorno Karabakh. E il giorno prima di invadere l’Ucraina Putin ha incontrato il presidente azero Aliyev, con cui si è accordato per evitare sgambetti reciproci sul fronte energetico». Inoltre « per ragioni politico-economiche le esportazioni di gas dall’Azerbaijan hanno una via preferenziale verso la Turchia». Già, la Turchia: il Paese governato da Recep Tayyp Erdogan è uno dei principali concorrenti dell’Italia nella corsa al metano, date le sue solide relazioni diplomatiche con Baku, Il Cairo e Mosca. Un’altra possibile alternativa alla Russia per l’Italia e l’Europa è rappresentata dagli Stati Uniti, diventati nel dicembre 2021 il primo Paese esportatore mondiale di gas liquido. Ma qui tutto dipende dai prezzi: gli americani lo vendono a chi offre di più. E noi europei dobbiamo vedercela con Cina, Corea del Sud, Giappone. Sassi avverte: «Rischiamo di entrare in una competizione per cui, settimana dopo settimana, nonostante l’offerta di gas rimanga costante, i prezzi aumentano sempre di più».

    C’è poco da stare ottimisti, insomma. E qui l’esperto si concede una riflessione amara: il nostro problema, dice, è che non abbiamo una strategia comune: «In Europa siamo tutti in balìa dello stesso problema, ma ognuno pensa a risolverlo per sé. E gli approvvigionamenti sulla piattaforma Ue tanto decantati dalla Commissione non si vedono». «La situazione è complicata – riconosce Sassi – ma allora bisognerebbe fare un discorso di realismo alla popolazione. L’alternativa fra la pace e il condizionatore? Quella è una dicotomia a cui deve rispondere la politica, non i cittadini. Certo, se davvero si farà l’embargo al gas russo, dovremo prepararci a razionamenti dell’energia. Il nostro stile di vita cambierà e si perderanno decine o centinaia di migliaia di posti di lavoro».
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