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    Il ministro dell’Istruzione uno e trino: ritratto di Giuseppe Valditara

    Il ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. Credit: ANSA/GIUSEPPE LAMI

    Il titolare di viale Trastevere, ex An, aderì a Futuro e libertà con l’esperienza di Scelta civica. Per poi approdare alla Lega. Ed esordire nel governo Meloni con la discussa missiva sul muro di Berlino. Il ritratto sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 18 novembre

    Di Roberto Bertoni e Anna Ditta
    Pubblicato il 18 Nov. 2022 alle 07:00

    Giuseppe Valditara, milanese, classe 1961, già allievo del prestigioso liceo Berchet, laureato in Giurisprudenza e professore ordinario di Diritto romano presso l’Università di Torino, è senz’altro uno degli intellettuali di riferimento della nuova destra. Già allievo di Miglio negli anni Novanta, venne successivamente folgorato dalla personalità di Pinuccio Tatarella, teorico della svolta missina di Fiuggi e protagonista di primo piano di Alleanza Nazionale una volta esauritasi la stagione dell'”arco costituzionale” che, di fatto, escludeva la presenza dei post-fascisti dal governo.

    Parlamentare di AN a partire dal 2001, nella sedicesima legislatura è il relatore di maggioranza della riforma Gelmini per quanto concerne l’ambito universitario. E qui è doveroso compiere una distinzione, in quanto a subire i maggiori tagli, per non dire proprio il massacro, fu invece la scuola, vittima delle sforbiciate inferte da Tremonti e avallate dalla Gelmini. Peccato che il pacchetto fosse completo e senza possibilità d’appello e che il nostro abbia comunque sostenuto il Berlusconi IV per un biennio, non opponendosi significativamente a nessuna delle riforme che esso ha compiuto in quel periodo e, anzi, sostenendo con convinzione uno dei cavalli di battaglia della destra di allora e di sempre: il merito, inteso nel senso che stiamo vedendo anche in queste prime settimane del governo Meloni.

    Di lotta e di governo 

    Il Valditara di governo, tuttavia, finisce nell’estate del 2010, quando, dopo mesi di logoramento, i rapporti fra Berlusconi e Fini vanno definitivamente in frantumi e ha inizio un sorprendente Valditara di lotta. Il professore aderisce a Futuro e Libertà e in autunno si pone all’opposizione, benché l’operazione di far cadere il governo non riesca per via dell’apporto decisivo di alcuni transfughi dal centrosinistra, fra cui i memorabili Razzi e Scilipoti, e il rientro alla base, all’ultimo minuto, di alcuni finiani pentiti. Nel 2011, sull’onda dello spread a 575 punti e del rischio default del Paese, Berlusconi andò comunque a casa e i finiani ebbero un ruolo importante nel sostegno all’esecutivo a guida Monti, fino a prender parte alla sfortunata avventura di Scelta Civica, terminata nel giro di un paio d’anni, con FLI ridotta allo 0,47 per cento e il nostro costretto a saltare un giro. Superato il comprensibile disappunto, ha inizio la nuova vita di questo liberal-conservatore figlio di un partigiano, come lui stesso ama definirsi e come ha rivendicato in una recente intervista rilasciata a Repubblica (anche se un partigiano “sui generis”, come si evince dall’inchiesta storica condotta da Christian Raimo e Davide Maria De Luca, pubblicata sul Domani).

    Il sovranista

    Se i finiani escono a pezzi, tuttavia, anche la Lega non se la passa bene dopo le elezioni del 2013. Tramonta, di fatto, l’era Maroni, che trova riparo al Pirellone, e inizia un’altra storia. Accantonati definitivamente i volti storici della Prima Repubblica, il nostro non si perde d’animo e, da uomo di mondo qual è, in breve fiuta l’aria e torna a destra. E che destra! Dopo Miglio e Tatarella, a volerlo come compagno di viaggio è Matteo Salvini, probabilmente affascinato dal suo saggio L’immigrazione nell’antica Roma: una questione attuale che il Giornale manda in edicola con un titolo ancor più accattivante per i sostenitori di un conservatorismo pronto, di lì a poco, a guardare al trumpismo: L’impero romano distrutto dagli immigrati. Non che Valditara sia uomo da corna in testa e assalti a Capitol Hill, ci mancherebbe altro, ma il direttore responsabile della rivista Logos, la sua rivista, era Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini e protagonista della vicenda dell’hotel Metropol a Mosca, i cui contorni non sono ancora del tutto chiari.

    Anche il sovranismo, tuttavia, subisce un’evoluzione, e così, dopo essere stato nominato capo dipartimento per la formazione superiore e la ricerca presso il Ministero dell’Istruzione dall’allora titolare di Viale Trastevere, Marco Bussetti (a sua volta in quota Lega), l’attuale inquilino di quello stesso dicastero fonda “Lettera150”, con un appello redatto insieme ad altri 149 docenti «in favore della rapida predisposizione di un piano di fuoriuscita in condizioni di sicurezza dal blocco del Paese per contrastare l’epidemia da Covid-19», come si legge sul loro sito. Stesso ambito ma sfumature differenti. Un intellettuale organico alla destra, dunque, abile a comprendere l’evoluzione storica del mondo e ad adattare il proprio pensiero e le modalità di esprimerlo a seconda dei contesti. Lo si capisce ancor meglio dai libri di cui è autore: da Sovranismo. Una speranza per la democrazia, con postfazione di Marcello Foa, poi divenuto presidente della Rai, a È l’Italia che vogliamo con Alessandro Amadori, psicologo e sondaggista, corredato dalla prefazione di Salvini. Diciamo che non ha cambiato opinione ma l’ha saputa sagacemente ricalibrare.

    Bussetti, contattato da TPI, commenta così la nomina di Valditara: «È un professionista di altissimo livello, con il quale ho collaborato su temi portanti – distribuzione dei posti per la specializzazione sul sostegno, nuovo contratto per i dirigenti scolastici e delle università, stabilizzazione del personale degli Enti di ricerca, rilancio del CNR, nascita della Scuola Superiore Meridionale di Napoli, oltre a un pacchetto di decreti per il sistema della formazione superiore e il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti presso la Santa Sede». E aggiunge: «Ritengo sia una delle figure più autorevoli che possa guidare il Ministero dell’Istruzione e del Merito: unisce alla profonda conoscenza del mondo della formazione, esperienza e concretezza. Lo ha dimostrato con il primo provvedimento – lo sblocco del contratto scuola e gli aumenti degli stipendi del personale scolastico.

    Ogni vera valorizzazione, ogni deciso passo verso il merito, parte da qui». Una mossa doverosa e azzeccata quella del ministro, che ha rinnovato il contratto che l’ultima volta era stato aggiornato sotto il ministero dell’esponente dem Valeria Fedeli nel 2018. Anche se – a proposito di meriti – va specificato che il nuovo contratto era già pronto per l’attività dei precedenti governi, dunque il ministro si è occupato esclusivamente di finalizzarlo con la firma.

    La polemica

    Non potendo fare granché in ambito economico e geo-politico, Giorgia Meloni ha pensato bene di puntare sull’identità. E così, vari dicasteri hanno cambiato nome. Quello della Pubblica Istruzione, ad esempio, si è trasformato nel Ministero dell’Istruzione e del Merito. Il punto, come detto, è cosa sia il merito per questa destra. Una prima spiegazione, come riportato dall’Espresso, la forniscono in questo passaggio proprio Valditara e Amadori: «Se questi sono i risultati di un sistema scolastico che ha cercato la qualità attraverso i processi selettivi e le bocciature agli studenti, dovremmo concludere che ha fallito.

    Ma sarebbe profondamente sbagliato immaginare di risolvere il problema della qualità degli apprendimenti futuri dei nostri giovani se, mantenendo la struttura del sistema scolastico esistente, eliminassimo soltanto le bocciature. Un sistema scolastico che sia “lievito” dei talenti degli studenti e che non trascuri nessuno deve strutturarsi sul piano ordinamentale, organizzativo e didattico in una maniera diversa dall’attuale. Passare dalla logica del “diplomificio” a un modello di formazione scolastica che privilegi lo sviluppo individualizzato dei talenti e delle corrispondenti competenze». L’auspicio è che il talento riguardi anche la conoscenza degli eventi storici.

    E qui qualche dubbio affiora, specie se analizziamo la lettera che il ministro ha rivolto a ragazze e ragazzi in merito alla “Giornata della libertà”. Perché se è vero che il 9 novembre 1989 costituisce senz’altro una data memorabile per tutto l’Occidente, l’interpretazione complessiva che il nostro dà del comunismo è alquanto discutibile. «Il comunismo – scrive – è stato uno dei grandi protagonisti del Ventesimo secolo, nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale. Nasce come una grande utopia: il sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l’umanità dai suoi limiti e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra.

    Ma là dove prevale si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte. Perché infatti l’utopia si realizzi occorre che un potere assoluto sia esercitato senza alcuna pietà, e che tutto – umanità, giustizia, libertà, verità – sia subordinato all’obiettivo rivoluzionario. Prendono così forma regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare.

    La via verso il paradiso in terra si lastrica di milioni di cadaveri». Gli ha risposto, da par suo, lo storico gramsciano Angelo D’Orsi, citando, in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano lo scorso 10 novembre, il suo maestro, il liberale Norberto Bobbio, che dopo i fatti di piazza Tienanmen, scrisse sulla Stampa, rivolgendosi proprio ai liberali: «Il comunismo storico è fallito, non discuto. Ma i problemi restano, proprio quegli stessi problemi, se mai ora e nel prossimo futuro su scala mondiale, che l’utopia comunista aveva additato e ritenuto fossero risolvibili. La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?».

    Quando leggiamo sul sito di ROARS (Return on Academic Research and School) un articolo dal titolo Schedatura di Stato INVALSI: nomi e cognomi degli studenti “disagiati”. E adesso?, qualche domanda ce la poniamo. Specie se nel finale compaiono riflessioni di questo tenore: «Domandiamoci: in quale stato liberale un algoritmo centralizzato, i cui criteri di funzionamento, nelle mani di un ristretto gruppo di esperti (gli statistici INVALSI), sono opachi e non riproducibili, può permettersi di assegnare un bollino rosso a centinaia di migliaia di studenti? Siamo davanti ad una profilazione individuale non richiesta di potenziali problemi di apprendimento del singolo studente, per di più fondata su contenuti non pubblici (i test computerizzati), dunque non contestabili o verificabili dal cittadino».

    E ancora: «La schedatura INVALSI non è solo allarmante perché assegna un’etichetta individuale in funzione di una valutazione algoritmica non controllabile. È ancora più allarmante perché, nei fatti, si risolve in una schedatura dei poveri, etichettati in massa come “fragili” o “potenzialmente disagiati” e suddivisi nelle caste di livello “due”, “uno” o “zero”». Forse, un’idea di cosa intenda per merito questo governo cominciamo a farcela.

    *Anna Ditta ha collaborato a questo articolo

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