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    Draghi premier dal Quirinale: l’ultima trovata dei “migliori” incapaci di fare politica

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 3 Nov. 2021 alle 13:01

    Non bastava il fronte tecnocratico evocato da Brunetta, la maxi-alleanza dei moderati nel nome di Draghi per disinnescare il pericolo sovranista con dentro Pd, Forza Italia, Renzi, Calenda, i Cinque Stelle e tutti quelli pronti a spendersi per il riformismo e il buon governo. Sembra infatti che la stagione del commissariamento dei partiti piaccia sempre di più a una classe dirigente incapace di liberarsi autonomamente dalle catene del populismo, incapace altresì di ottenere autonomamente un reale consenso popolare, e in cerca per questo di un padre nobile che possa affrancarla dalla fatica di fare politica.

    Ecco quindi che viene alzata continuamente la posta. L’ultima idea è di Giancarlo Giorgetti: Draghi uno e trino, presidente della Repubblica, ma allo stesso tempo presidente del Consiglio da remoto, così i partiti non ricominciano a litigare tra loro, garante dell’indirizzo politico del parlamento direttamente dal Colle, incarnazione di una costituzione materiale in cui vige un semipresidenzialismo “de facto”.

    L’idea farebbe sorridere se non fosse il segno più chiaro dell’incapacità, da parte dei riformisti italiani, di dar vita a un reale progetto politico che raccolga consenso nel Paese, affermandosi come reale alternativa al sovranismo senza ricorrere a stratagemmi talmente stravaganti da far saltare dalla sedia persino i costituzionalisti.

    Giorgetti, che di Draghi è ministro e della Lega è vicesegretario, ha espresso questa sua singolare visione della forma di governo del nostro Paese nell’ultimo libro di Bruno Vespa, in cui tra le altre cose piccona anche Matteo Salvini, chiedendogli di “istituzionalizzarsi”, di “fare scelte precise” e di optare per una svolta europeista che al momento resta incompiuta.

    Il combinato disposto dell’afflato semipresidenzialista e della critica al sovranismo deve far riflettere. Giorgetti, da mesi, porta avanti il tentativo di trasformare la Lega in un partito a reale vocazione europeista e moderata, ma è consapevole allo stesso tempo che senza Salvini e la sua leadership, difficilmente il Carroccio godrebbe di un consenso così ampio nel Paese. Vista la sostanziale incapacità di costruire, all’interno della Lega stessa, una leadership altrettanto popolare e carismatica ma espressione di un progetto alternativo, lontano dal sovranismo, ci si rifugia appunto nel commissariamento della politica: troppo faticoso diventare popolari, farsi capire dalle persone, costruire alleanze ed equilibri realmente politici in parlamento, tra i partiti. Meglio quindi affidarsi alla competenza in salsa tecnocratica e presidenziale, anche a costo di cambiare le regole del gioco.

    Giorgetti sembra così iscriversi alla vasta schiera di politici moderati e centristi che, incapaci di far fronte all’ondata populista e sovranista  con una proposta politica propria, chiara, vincente, capace di parlare alla gente, si rintanano nella alchimie istituzionali, nelle manovre parlamentari. Quelli che fanno cadere un governo dall'”alto” del 2 per cento dei consensi, come Renzi, o che invocano maxi-coalizioni spurie per recuperare una centralità che hanno avuto nell’epoca del populismo televisivo (vedi Brunetta e Berlusconi), ma che non riescono a recuperare oggi che hanno cambiato abito. L’unico a distinguersi, in questo contesto, sembra in parte Calenda, che a Roma ha avuto il coraggio di confrontarsi col voto popolare, con la sfida tutta politica della ricerca del consenso, uscendone peraltro tutt’altro che male.

    Se Giorgetti e compagnia cantante vogliono giocare un ruolo da primattori devono trovare una strada per affrancarsi non solo dal macigno populista che ancora grava su di loro, ma anche dall’illusione di poter fare politica per interposta persona. Devono affrancarsi non solo da Salvini, ma anche da Draghi.

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