Senatore, lei ha proposto di incrementare il Fondo per l’Editoria utilizzando una parte dei 723 milioni di euro che Amazon verserà all’Agenzia delle Entrate per chiudere l’inchiesta della Procura di Milano. Perché quei soldi dovrebbero essere destinati ai giornali?
«I media – sia la stampa tradizionale sia i giornali online – devono essere tutelati rispetto al dilagare delle fake news sui social e al saccheggio dei contenuti giornalistici perpetrato dalle grandi piattaforme digitali. Con la Legge di Bilancio sarà rifinanziato il Fondo per l’Editoria, ma potrebbe essere utile stanziare anche ulteriori risorse. Dato che Amazon dovrà pagare quella cifra, ho suggerito che una parte della somma venga assegnata all’editoria e al settore audiovisivo. La comunicazione, anche quella culturale, attraversa una fase problematica e penso che un sostegno in più potrebbe aiutare. Qualcuno lamenta il fatto che si tratterebbe di uno stanziamento una tantum: è così, ma penso che sarebbe comunque utile».
Ha già avuto modo di discuterne con qualche rappresentante del Governo?
«Sì, ne ho parlato con il Ministero dell’Economia. Bisogna verificare se, in virtù della normativa europea, introiti di questa natura siano vincolati all’abbattimento del debito. Per capire se si tratta di una proposta concretizzabile, bisogna attendere questa verifica».
In vista della Legge di Bilancio, la Fieg (Federazione italiana editori giornali) chiede di «potenziare gli strumenti di sostegno al settore»: indiscrezioni di stampa parlano di un possibile stanziamento da 185 milioni di euro che dovrebbe includere la proroga del credito fiscale per l’acquisto della carta da stampare. Pensa che si potrà arrivare a quella cifra?
«Vedremo, non mi voglio sbilanciare sulle previsioni. Lo scopriremo nei prossimi giorni».
La Fieg invoca anche una nuova legge per tutelare l’editoria dallo strapotere delle Big Tech. Che ne pensa?
«Sicuramente se ne può discutere, ma temo che una legge nazionale serva a poco, poiché le norme nazionali rischiano di essere facilmente aggirabili. Occorrerebbe una volontà quantomeno europea, volontà che, anche recentemente, è stata dimostrata da parte della Commissione con la multa a X e l’inchiesta avviata nei confronti di Google. Anche la Global Minimum Tax andava in quella giusta direzione. Con queste Big Tech bisogna essere decisi e andare fino in fondo».
I giganti del digitale spesso pagano tasse in misura irrisoria rispetto ai mega-profitti che registrano. Sarebbe favorevole ad aumentare l’imposizione fiscale nei loro confronti?
«Assolutamente sì. È una vergogna. Stiamo parlando di approfittatori, per non dire di peggio, che sabotano un equilibrio dignitoso in campo fiscale. Speriamo che qualcosa si muova perché non è tollerabile questo regime di impunità fiscale dei colossi della rete. Oggi più sei grande e meno paghi: è inaccettabile».
Come ricordava anche lei, nei giorni scorsi la Commissione europea ha avviato una nuova indagine antitrust che ipotizza che Google abbia fatto profitti sfruttando i contenuti prodotti dagli editori. Il rischio però è che l’azienda se la possa cavare con la solita multa adeguando solo in minima parte il proprio modus operandi. Sembra che le istituzioni si muovano sempre quando ormai è troppo tardi.
«Il rischio c’è, e per certi versi è già troppo tardi. Però meglio tardi che mai».
Nel 2019 l’Ue ha emanato una direttiva che stabilisce che le piattaforme online debbano rimborsare gli editori per l’utilizzo di contenuti giornalistici, tuttavia la definizione del rimborso è rimandata a un accordo tra il singolo editore e la piattaforma. Questo meccanismo è da rivedere?
«È un meccanismo fallace, perché nella sostanza i rimborsi non si concretizzano quasi mai. Il punto è che qui non stiamo parlando dell’avvento di una nuova tecnologia, ma di un vero e proprio saccheggio digitale, un saccheggio che deve cessare. Tutto ciò che va in questa direzione secondo me è giusto, equo e auspicabile».
Le Big Tech assorbono i due terzi del mercato pubblicitario globale. Considerato che social e motori di ricerca sono piattaforme che ospitano contenuti prodotti da altri, sarebbe favorevole a un intervento normativo volto a riequilibrare le forze anche nel mercato della raccolta pubblicitaria?
«Certamente. Queste realtà stanno assorbendo un monte crescente di pubblicità a fronte di un numero irrisorio di posti di lavoro creati. Non creano occupazione, non fanno informazione locale, fanno concorrenza sleale. Sono assolutamente favorevole a qualsiasi intervento che tenti di operare un riequilibrio».
Lo scorso 28 novembre i giornalisti italiani hanno scioperato, rimproverando agli editori, tra le altre cose, di non aver investito abbastanza in questi anni e di aver badato più a tagliare i costi. La crisi dell’editoria è tutta colpa delle Big Tech o anche gli editori hanno qualche responsabilità?
«Se gli investimenti languono è per il saccheggio digitale di cui parlavo prima, un assorbimento di risorse pubblicitarie da parte di chi non paga tasse e non fa investimenti adeguati. Comprendo i diritti di chi lavora nell’informazione – giornalisti, operatori tv, operai – ma non si può pretendere che le imprese editoriali investano di più se incassano di meno e subiscono una concorrenza sleale».
La libera informazione è un pilastro fondamentale per la tenuta delle democrazie. Come può sopravvivere in un’era in cui sempre meno persone sono disposte a pagare per informarsi?
«Mi rendo conto che si tratta di una situazione molto difficile, perché per il lettore la tentazione della gratuità è forte, ma noi dobbiamo difendere i media tradizionali. Anche a costo di sembrare passatisti. L’informazione va garantita e tutelata».
Intanto, Exor sta vendendo i giornali e le radio di Gedi al gruppo greco Kyriakou, partecipato dal principe saudita Bin Salman. Il Pd chiede che il Governo impedisca l’operazione esercitando il Golden Power.
«È un’operazione di mercato. La chiudo con una battuta: speriamo che per Gedi arrivino i Cavalieri Jedi, che nel film Star Wars erano i “buoni”».