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    L’ultima follia classista si chiama “tassa sull’unto”: far pagare di più i panini per non sporcare i reperti storici

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi
    Di Luca Telese
    Pubblicato il 16 Lug. 2021 alle 13:03 Aggiornato il 16 Lug. 2021 alle 14:28

    No, vi prego, “la tassa sull’unto” non si può sentire. Oggi voglio mettere insieme due notizie apparentemente slegate tra di loro, che in queste ore sono passate – quasi senza essere notate – nel rullo tambureggiante delle news. Invece queste due note di colore ci riguardano molto, perché sono frammenti di un disegno ideologico che sta provando a farsi egemonia culturale. La prima notizia è proprio questa cosiddetta “tassa sull’unto” (ovvero sulle “scorie” inquinanti dello street food) proposta dal direttore dei musei degli Uffizi di Firenze, che è un elegante signore tedesco e che si chiama Eike Dieter Schmidt.

    La seconda è una notizia che arriva da Parigi, dove la sindaca Anne Hidalgo, in nome dell’equilibrio eco-sostenibile ha appena varato in tutta la città (escluso tangenziali e Boulevard) il limite insormontabile dei 30 km all’ora. Entrambe le notizie dicono cose che apparentemente potrebbero sembrare di buonsenso. Dieter Schmidt sostiene che il cibo da asporto venduto a Firenze, come in tutte le città d’arte – a partire dai panini ripieni – produce un inquinamento ambientale, quello degli olii e dei condimenti, che volano giù dagli incarti maldestri, gocciano sulla pietra serena fiorentina, e la macchiano in maniera irreversibile.

    Secondo Dieter Schmidt tassare quei panini unti e oleosi ridurrebbe una cattiva abitudine di consumo, e garantirebbe generosi fondi per finanziare la costosa manutenzione degli impiantiti e dei selciati monumentali. La Hidalgo – invece – sostiene che obbligando tutti ad andare più lenti si abbatte l’inquinamento, a partire dal più invisibile, quello acustico, e così si migliora la qualità della vita. Devo dire, con una certa brutalità, che entrambe queste due tesi mi sembrano ridicole, e persino pericolose.

    Ho in mente un meraviglioso saggio sotto forma di racconto fantastico che Primo Levi scrisse da letterato e da chimico – addirittura –  sulle cicche delle gomme da masticare (il più orribile e inquinante dei residui alimentari umani contemporanei), spiegando che con la loro resistenza, e la loro capacità di inglobare altri reperti, avrebbero dato indizi preziosi agli archeologi del quarto millennio. Era un paradosso geniale, ma Levi lo usava proprio per spiegare che la storia si fa beffe dei propositi più illuminati, spiegava che il petrolio era un rifiuto tossico e decomposto di una era geologica fa, e che l’ambra era un residuo colloso calcificato.

    La pietra serena di Firenze è stata sporcata dal sangue e dalle invasioni, è stata calpestata, violata, incisa milioni di volte, e questo è esattamente il senso della storia. Forse quella pavimentazione monumentale davanti agli Uffizi non è stata mai pulita: la pulizia di oggi è un gradevole, ma innaturale stato, di quel reperto storico. Le pietre di alcuni nuraghe sono state smontate, millenni fa, per costruire nuove case.

    E a Roma, Virginia Raggi, un giorno mi mostrò una passerella dei fori romani, costruita nell’Ottocento con residui archeologici e frammenti di capitelli e cocci millenari, teste di statue decapitate, residui di malte e materiali di riempimento d’epoca. Il che, riferiva divertita, accendeva un animato dibattito all’interno della soprintendenza: quel pilastro andava considerato una abuso, e smantellato, oppure un reperto da ripulire per mostrare la sua genesi costruttiva? Bel dilemma.

    Ecco perché mi fa ridere l’idea di una nuova “tassa sull’unto”, la più stupida e classista quelle che ho mai sentito ipotizzare. Ovvio che chi mangia in un bel ristorante con le posate d’argento inquini di meno. Ecco perché, fra le tante tasse che già ci sono, quella sull’unto sarebbe la più odiosa e stupida: in primo luogo perché nessuno rinuncerebbe a gocciolare per il fatto di aver pagato 50 centesimi in più il suo panino con la porchetta. Casomai scatterebbe il sentimento contrario: visto che ho pagato di più, faccio come voglio.

    Ma se uno macchia di proposito, o per plateale distrazione, esiste già la multa, che è una tassa (ma indiretta) su un cattivo costume civile. Far pagare chi si mangia un panino ma non sporca, invece, quella sì che sarebbe una discriminazione. A meno che il fine ultimo di questa idea di Dieter Schmidt non sia criminalizzare il panino, le lattine delle bibite, l’idea stessa del fagotto che ti porti dietro, magari perché sei una famiglia e vuoi risparmiare.

    Quanto alla lentezza virtuosa e al limite di velocità urbana della Hidalgo, il discorso è incredibilmente simile: un bel proposito, senza dubbio, ma ancora una volta una splendida norma per ricchi facoltosi e nullafacenti. L’ingorgo nelle città è il sale della vita, corriamo per andare al lavoro e accompagnare a scuola i nostri figli, per fare acquisti, per andare a scuola in orario. Il tempo è una risorsa infinita solo per i carcerati e per chi vive di rendita.

    L’immagine più drammatica delle città sono i semafori lampeggianti e le strade deserte, che hanno commosso alcuni intellettuali con tendenze molto chic, come Michela Murgia, ma che in realtà erano la spia di una terribile conseguenza della pandemia, il lockdown. Ecco perché la decrescita infelice del traffico e la tassa sull’unto sono sue idee partorite in diversi angoli d’Europa, ma accomunate da una idea comune: quella che illudersi di mettere le braghe al mondo sia una soluzione. Invece, per me, queste trovate, più che una soluzione sono un problema.

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