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    Perché la sinistra ha dimenticato la lezione di Berlinguer (di G. Cuperlo)

    Di Gianni Cuperlo
    Pubblicato il 25 Mag. 2022 alle 08:01 Aggiornato il 25 Mag. 2022 alle 08:03
    Più o meno negli ultimi trent’anni a me quella cosa dei «pensieri lunghi» è apparsa come il buco nero della sinistra. La formula era figlia di Enrico Berlinguer, il leader più amato, stimato, rispettato fino dentro la «casa d’altri». L’aveva coniata, in parte percorsa, prima che il malore se lo portasse via a poco più di sessant’anni, gli ultimi dodici vissuti da segretario del Pci. Col tempo però mi è sorto un dubbio che ha finito per imporsi ed è che il problema non stesse dove sempre lo avevamo collocato, voglio dire nell’aggettivo. A lungo quel vuoto è vissuto nella fragilità del sostantivo. Insomma in un «pensiero» che quanti sono venuti dopo, anche molto dopo la folla giunta a salutarlo (mai più viste San Giovanni e consolari pigiate a quel modo), non hanno saputo né voluto coltivare come sarebbe servito.

    Ora, due aggiunte vanno fatte. La prima serve a motivare cosa negli anni conclusivi della vita abbia spinto il capo comunista a scegliere proprio quella sintesi, tenuto conto che a leggerne la biografia si coglie quanto poco fosse incline all’improvvisazione. L’altra, speculare, è quale ostacolo abbia impedito agli eredi della stessa tradizione di proseguire la ricerca, o almeno il metodo, avviato ben prima dell’ultimo comizio di Padova. Cercare le risposte vuol dire, almeno in parte, risalire la corrente e conviene farlo a partire da un giudizio.

    Il Berlinguer dei primi anni Ottanta? Un uomo sconfitto, costretto dopo la fine di Moro a una ridotta minoritaria, come stretto tra moralismo e movimentismi senza appiglio col governo. Negli anni questo parere ha raccolto non pochi consensi, seppure racchiusi per intero nelle élite della sinistra a iniziare dalle forze che a quel partito sono succedute. Non paia una stramberia, soprattutto non lo si imputi a incompetenza, ma nel vecchio insediamento, la “base” comunista per capirci, nessuno o quasi ha vissuto l’ultimo Berlinguer come un profeta disarmato o un monaco eremita. A tutti gli effetti lui era un capo politico, certo cosciente di quanto la sua unica strategia, approssimare il più possibile i comunisti all’esercizio del governo nazionale, col preambolo democristiano e la sterzata centrista di Bettino Craxi fosse relegata ai margini e di fatto impotente, e però quella condizione così anomala – trovarsi alla testa di un popolo tutt’altro che disperso, un italiano su tre votava comunista, ma senza più la prospettiva di un accesso al governo – lo aveva spinto a ricollocare valori, politiche, identità di quella sinistra nella storia europea e globale del «mondo dopo». Non era poco. Non era per nulla poco. Significava prendere atto che la stessa sfida del governo, al netto della preclusione americana a vedere i comunisti accedervi nel cuore dell’Occidente (la Guerra Fredda era di là da concludersi), chiedeva al più autonomo di quei partiti una riforma profonda delle proprie categorie culturali e politiche.

    All’epoca si sarebbe parlato di un nuovo paradigma della modernità e con esso dell’urgenza di non disperdere il patrimonio di una tradizione scorgendo l’irrompere di tematiche non rubricabili nell’album di famiglia o nel conflitto sino lì dominante tra capitale e lavoro.

    In sintesi, la stagione che si apre in quel passaggio è segnata dalla battaglia sul disarmo bilanciato tra Est e Ovest, l’opposizione ai missili Cruise nella pancia siciliana – su quella frontiera oltre che sulla legge a lui intitolata, Pio La Torre avrebbe sacrificato sé stesso – e la richiesta di ritiro degli Ss20 sovietici, minaccia diretta all’Europa. Sono gli anni di una scoperta sensibilità verso la crisi ambientale (sul mutamento climatico almeno il versante politico si sarebbe interrogato più avanti) e assieme a questo l’attenzione al pensiero femminista, ai capitoli delle riforme civili dove in passato il Pci non aveva brillato per intuizioni e coraggio.

    All’ultimo congresso dei giovani comunisti, si tenne a Milano nel 1983, Berlinguer si lanciò nella suggestione di un convegno di futurologia, l’idea di scuotere saperi e discipline diverse, dall’economia alla scienza, e storici, filosofi, giuristi, per scavare le fondamenta di quella realtà in transizione che andava formandosi. Avveniva comunque in ritardo rispetto ai frutti già prodotti dai laboratori universitari di oltre Oceano dove la vendetta anti-keynesiana navigava col vento in poppa almeno dalla fine del decennio precedente. Ora, che una torsione simile del progetto politico non riuscisse a conquistare l’appoggio della maggioranza del gruppo dirigente del tempo più che una valutazione va considerato un fatto. Nel film di Walter Veltroni è stato Aldo Tortorella, testimone diretto e protagonista di quella stagione, a ricordare il clima difficile della discussione alla direzione del Pci, l’ultima presieduta da Berlinguer. Poche settimane più tardi tutti, membri storici e nuovi ingressi di quell’organismo, avrebbero pianto il segretario sull’enorme palco al centro di Roma. Ma in Berlinguer, questo credo sia l’aspetto che conta, c’era piena consapevolezza della difficoltà a cui il partito andava incontro, compreso il bisogno di un confronto esplicito sulla linea da tenere nel dopo.

    E siamo al punto, alla seconda riflessione accennata e che si può riassumere in questo: cosa ha impedito a quelli venuti poi di proseguire una ricerca sulle forme mutate del capitalismo finanziarizzato e le sue ricadute sull’economia reale e i conflitti sociali destinati a riscrivere la mappa dell’Occidente e non solo?

    Anche qui, a scanso di equivoci, sarebbe ingeneroso descrivere l’intera stagione successiva come una morta gora. Non fu questo e basterebbe tornare allo scontro sul nucleare del XVII congresso a Firenze nel 1986, il solo della transizione di Alessandro Natta. Potrei anche citare, stavolta per memoria diretta, le analisi puntuali che Alfredo Reichlin offriva al vertice comunista sul primato di una «economia di carta» dal potere via via più soverchiante se misurato al declino indotto dell’economia reale. Sino a battaglie sulla frontiera dei diritti di libertà e autonomia della persona che in anni prossimi a noi hanno visto la sinistra avanzare nella prima fila e non più inseguire come una vecchia intendenza.

    Tutto giusto e tutto vero, ma il nodo temo non stia lì, in singole azioni e campagne spesso condotte da avanguardie per quanto culturalmente attrezzate. Quella rimozione colpevole del sostantivo – il pensiero – è corrisposta a un rovesciamento delle priorità, o delle gerarchie, fate voi. Mettiamola così: ciò che nell’ultimo Berlinguer era di fatto precluso, l’accesso al governo, qualche anno più tardi diviene la ragione prima, nonché unica, della missione che le nuove classi dirigenti, parliamo degli eredi della tradizione comunista, pongono a fondamento del proprio affermarsi. Col senno di poi questa credo sia stata una delle leve sulle quali poggiò lo stesso sostegno alla “Svolta” dell’89. Non da parte di Achille Occhetto, mi va di sottolinearlo, che al contrario da quella fase in avanti si è distinto precisamente sul terreno dello studio di scenari radicalmente innovativi, prodromi nella sua lettura di un neo-socialismo ecologista. Penso, però, che quella dell’ultimo segretario del Pci sia stata una maratona piuttosto solitaria perché, insisto, la spinta degli altri – leader, aspiranti tali, comprimari e comparse – si è volta a un potere finalmente conseguibile per via tradizionale (il consenso delle urne) o tramite manovre tattiche sempre giustificate da ragioni indiscutibili e di forza maggiore.

    A quel punto – qui sintetizzo troppo, lo so e me ne scuso – una revisione radicale delle categorie del pensiero politico pareva persino un rischio dinanzi all’urgenza di farsi accogliere negli ambienti dell’establishment. Tutto sommato era più comodo procedere per piccoli e marginali aggiustamenti, in economia come su altri campi, col risultato che il piano inclinato ha finito coll’imitare la lingua degli altri. Una sola eccezione vi è stata e va citata, l’Ulivo di Romano Prodi e la spinta che seppe esercitare su di un “popolo” vasto e di nuovo partecipe di una scommessa collettiva. Ma al pari delle cose belle non ebbe vita lunga mentre lo slogan, in sé ambizioso e bellissimo, di «un altro mondo possibile» passava come il testimone della staffetta dalle mani dell’ultima stagione comunista al nuovo movimento di Seattle e di una critica alla globalizzazione vista per tempo da una minoranza accusata di sabotare la sola, indiscussa, legge della storia.

    Enrico Berlinguer nasceva un secolo fa, era il 25 maggio 1922, a Sassari, Sardegna. L’accento ne tradiva la radice e non è mai mutato, almeno da quando giovanissimi abbiamo imparato ad ascoltarlo. Dopo la malattia di Luigi Longo venne indicato e scelto come vice-segretario non perché fosse d’impatto il migliore o il più brillante, forse per alcuni fu la soluzione meno impegnativa, l’idea di una transizione necessaria in quel preciso contesto. Invece, talvolta accade, quella figura non imponente nel fisico, timida nei modi, solenne il necessario, in pochi anni divenne il capo carismatico di una comunità di donne e uomini accomunati nella stessa causa. A noi, alla nostra generazione, ha insegnato forse la cosa più importante, non smarrire mai il senso di ciò che si fa perché in quella dimensione vive sempre anche il senso di ciò che si è. Ha scritto Mario Tronti anni fa: «Si conoscono bene solo gli uomini che non sono niente di diverso da quello che appaiono. Per chi possiede un di più di vita interiore la comprensione è lenta, lunga, e soprattutto postuma». Difficile dire di più. Forse impossibile dire meglio.
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