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    Rispettate il sindacato: scioperare ha un valore democratico

    Di Maurizio Tarantino
    Pubblicato il 16 Dic. 2021 alle 11:30 Aggiornato il 16 Dic. 2021 alle 11:35

    È già successo. Abbiamo già visto un tempo in cui siamo usciti di casa in giacca e cravatta dimenticando tra la naftalina dell’armadio le tute di lavoro dei nostri padri e ci siamo risvegliati classe media indebitata e inconsapevole. Una generazione che di quella tuta respinge la modestia e dimentica la dignità. Farebbe bene un po’ a tutti svegliarsi presto e al freddo andare a prendere uno degli autobus della Cgil o della Uil per partecipare alle manifestazioni e fare un piccolo bagno di realtà. Farebbe bene alla memoria, per esempio. Non molti anni fa – a cavallo tra il 2011 e il 2015 – con il Governo Monti e quello di Matteo Renzi che si avvicendavano al governo del Paese – si sono svolti gli ultimi due scioperi generali, il 12 dicembre 2011 contro la Legge Fornero e il 12 dicembre 2014 contro il Jobs Act. Quei governi hanno promosso nei fatti le leggi più liberiste della Repubblica Italiana. Erano gli anni del “Fiscal compact”, delle lacrime della ministra al Welfare che rinviava la pensione di anni a milioni di italiani, della sburocratizzazione un po’ selvaggia dello “Sblocca Italia”, o dei Presidi manager della “Buona scuola”. Quei governi, confusi tra un “thatcherismo” di ritorno e un “blairismo” anacronistico, erano costituiti da compagini in cui la sinistra era parte fondante, dal Bersani nel governo Monti, alle Leopolde renziane targate Pd. Quelle compagini portarono a scelte radicali sul mondo del lavoro come mai nessuno era riuscito a fare prima. Cadde in quegli anni l’articolo 18, mentre si faceva avanti un’idea della disintermediazione dei processi umani sui posti di lavoro, dell’ impoverimento progressivo e inesorabile delle buste paghe degli italiani, delle drammatiche condizioni di lavoro di finte partite IVA, degli artigiani nei subappalti al massimo ribasso, fino all’incontrollata economia canaglia e para-mafiosa delle nuove schiavitù nei campi foggiani e calabresi, imposte dalle politiche economiche della grande distribuzione alimentare. Fino ad arrivare ai Riders e alle loro infinite battaglie di cui solo oggi si inizia a parlare o ai lavoratori di Amazon della logistica per la quale ormai definitivamente si è accettata una certa marginalità dei diritti dei lavoratori al servizio di mostri sovranazionali che possono anche permettersi multe miliardarie e non rispettare i diritti dei lavoratori. Tutto questo ha comportato la politica perseguita dall’Occidente che ha spostato in Cina le fabbriche, in un’anarchia del capitale che ha fatto pagare duramente queste scelte all’ambiente, ai diritti, all’economia e soprattutto ai lavoratori.

    Ogni volta che voltiamo lo sguardo alle lotte dei sindacati scegliamo di smantellare un altro pezzo di diritti conquistati dai nostri padri. È così oggi lo sciopero generale è attaccato unanimemente dalla stampa (Bombardieri sulle colonne del Manifesto denuncia attacchi squadristi di alcuni editoriali durante le ultime settimane) e da quasi tutte le forze politiche, anche da quelle che fino a qualche mese fa parlavano di mettere in cantiere un nuovo Statuto dei lavoratori. Tutto questo c’è di non raccontato da gran parte dell’informazione e della politica italiana nelle ultime settimane, da quando cioè Maurizio Landini – Cgil e Pierpaolo Bombardieri – Uil hanno dichiarato lo sciopero generale contro colui che delle suddette politiche è stato in qualche modo l’artefice indiretto, dalla lettera della BCE a Berlusconi a firma Trichet e Draghi (che diede proprio il via al governo Monti), all’attuale scelta sulle politiche economiche del Paese.

    Detto ciò, il fatto è soprattutto politico. Lo scontro tra i sindacati e il governo rappresenta il contrappunto tra l’anima della sinistra che si dice progressista e la realtà dei fatti che la vedono ormai da tempo protagonista di un governo conservatore. L’eterna differenza tra parole e azioni trasferisce la drammatica realtà per la quale si può anche pensare di stare al governo esattamente con quelli che si sono attaccati fino a pochi mesi prima e che si è fatto di tutto per rivalutare poi. Ci si può anche raccontare che il sindacato sia solo classe dirigente che non rappresenti più nessuno, e che la redistribuzione dei fondi europei del PNR abbia dato attenzione alle fasce più deboli della popolazione, che il gettito fiscale del Paese è pagato per lo più dai quadri aziendali che guadagnano 75mila euro all’anno e che per questo il contributo di solidarietà verso chi ne guadagna 15mila è stato bocciato in Parlamento perché ingiusto. Ci si può anche convincere che non è poi così drammatico che i sondaggi sono in salita e la politica insegue più un influencer che veste Gucci che un leader sindacale.

    Quello che proprio non si può sentire è la pretesa di rappresentare le fasce popolari del Paese, le periferie, i 5 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà. Coloro che non si accorgono più dell’esistenza della politica in Italia, non seguono gli infiniti dibattiti sul nuovo Presidente della Repubblica e l’alternarsi di mille voci di distrazione di massa tra virologi e no-vax, e i finti duelli dei main stream tra buoni e cattivi e soprattutto sono quelli che non votano. Esiste una politica che va in giro per la città, che abbassa gli sguardi sui marciapiedi e frequenta i mercati popolari? Che ha idea della reale situazione in cui versa la popolazione oggi dopo tre anni di pandemia? Esiste una politica industriale e di serio rilancio del mercato del lavoro in Italia, per la quale non si debba per forza rincorrere al ribasso la competizione delle infinite delocalizzazioni? O dobbiamo abituarci all’idea di altre GKN con i lavoratori licenziati su WhatsApp?

    Lo sciopero è formalmente incentrato sulla detassazione dell’IRPEF nei redditi più bassi, ma dietro a questo – che è il motivo per cui è saltato il tavolo con Draghi – c’è tutto quanto detto finora. C’è il ruolo del sindacato che in quanto parte sociale è di parte per definizione e che è bene che venga rispettato. Un Paese che si ritenga civile ha il dovere di legittimare le scelte collettive come gli scioperi e di non perpetrare reiterati attacchi e continue delegittimazioni da ogni dove come è accaduto in questi giorni. Anche perché quando si parla di corpi intermedi e ci si rende conto di quanto gli estremismi siano dietro l’angolo, allora sono tutti in fila: i leader politici e gli editorialisti a valorizzare il ruolo dei sindacati. Forse sarebbe il caso di essere coerenti e di rendersi conto del valore democratico di uno sciopero, davanti a una politica, quella italiana, che sembra aver definitivamente abdicato la sfera decisionale al prestigio del Presidente del Consiglio. È già successo che la sinistra si dimenticasse da dove viene e chi rappresenta, appannata da risultati elettorali al 40 per cento di Renzi per poi risvegliarsi con un 17 per cento nelle politiche del 2018 e un’infinita sequela di divisioni e scissioni. Oggi si fa di nuovo strada la parola “progressista”: forse è il caso di farne tesoro e di dare un vero significato alla memoria.

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