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    Il populismo non è un’ideologia, è un metodo. Usato anche dalle élites (di S. Mentana)

    L'editoriale del vicedirettore di TPI Stefano Mentana sul quinto numero del nostro nuovo settimanale

    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 15 Ott. 2021 alle 12:40 Aggiornato il 8 Mar. 2023 alle 15:23

    Se siete rimasti spaesati dall’assenza di accuse di “populismo” nell’ultima tornata elettorale non dovete stupirvi così tanto. Tale parola si è introdotta a tal punto nel nostro dibattito politico, colpendo in particolare alcuni partiti, da aver mutato gran parte del suo significato. Nell’immaginario collettivo il famigerato populismo è diventato qualcosa di simile a un’ideologia. È qui però che nasce l’errore, perché il populismo è prima di tutto un metodo. Non sono ideali o dottrine specifiche a fare da ossatura a questo famigerato populismo, ma è il saper toccare corde scoperte di una parte della popolazione, assecondarle senza se e senza ma a costo di proporre soluzioni fuori portata. Un modo che contribuisce a esasperare una divisione con altre forze politiche e sociali, ma che comunque è in grado di porre attenzione su problemi esistenti. Ma proprio per questa sua caratteristica, il metodo populista non può essere usato incessantemente per secoli in maniera sistematica.

    Le principali forze politiche cui è stata assegnata questa etichetta, quelle che nel 2018 avevano costituito il governo giallo-verde, non sembrano oggi in condizione di toccare certi sentimenti della popolazione, come fatto fino a pochi anni fa, tra promesse non mantenute, cambi di posizione e giri di valzer al fianco di partiti fino a ieri osteggiati col pugnale tra i denti. Oltre a una scelta non sempre azzeccata delle candidature in questa tornata elettorale. La purezza di alcuni anni fa sembra essere venuta meno, e con essa la possibilità di portare avanti certi argomenti, trasformandosi in forze che oggi sono alla ricerca di una nuova identità. Il populismo è dunque un metodo passeggero, che ciclicamente emerge e si fa da parte in base alle esigenze, sostenendo idee e posizioni diverse, ma che in Italia come altrove non è appannaggio solo di quei partiti cui, più di altri, è stata affibbiata questa etichetta. Se è populismo fare retorica contro l’establishment, lo è anche farla sulla sostituzione della classe politica con dei tecnici qualificati, invocare le manette senza lasciare che la giustizia faccia il proprio corso, auspicare una revisione del suffragio universale perché i risultati delle elezioni non sono stati quelli desiderati, pensare di limitare l’uso dei profili social per i politici.

    Idee che editorialisti, così come politici o utenti social che coprono uno spettro politico più ampio di quanto si possa pensare, hanno più volte accarezzato, pur senza essere mai state proposte in maniera sistematica. D’altronde se stiamo parlando di un metodo, nella spaccatura manichea “popolo vs élite” che fa comodo a tanti non è scritto che solo il primo debba farne uso. Ma allora perché questo caro, vecchio, populismo è rimasto ai margini in questa ultima campagna elettorale? Perché nessuno sembrava in condizione di mettere in pratica questo metodo, che non è sparito, ma a questo giro ha preferito passare la mano.

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