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    Popolare di Bari: salvare le banche uccide il mercato

    Il salvataggio della Banca Popolare di Bari è l'ennesima operazione di assistenzialismo a costo pubblico. Salvare gli istituti piace a tutti, ma uccide il mercato che invece deve produrre necessariamente vincitori e vinti

    Di Elisa Serafini
    Pubblicato il 16 Dic. 2019 alle 18:28 Aggiornato il 16 Dic. 2019 alle 18:52

    Salvare le banche uccide il mercato

    Non bastavano gli interventi su Ilva, Alitalia, Monte dei Paschi, Popolare di Vicenza e Veneto Banca: con il “salvataggio” della Banca Popolare di Bari, lo Stato italiano prepara l’ennesima operazione di assistenzialismo a costo pubblico impegnando capitali e consegnando al mercato un messaggio molto pericoloso: in Italia alcuni possono fallire e altri no.

    Per comprendere al meglio la dinamica di questa vicenda, è necessario prima di tutto capire la portata del “salvataggio”, i reali rischi per correntisti e investitori e i possibili rischi di mercato.

    Partiamo dai capitali con qualche esempio per capire la portata degli investimenti previsti. Tra i contributi assegnati alle banche venete e quelli promessi al Popolare di Bari il conto per il Paese potrebbe arrivare a oltre 20 miliardi di euro. Una cifra che rappresenta dieci volte l’importo speso per Quota 100 in un anno, tre volte quello per il reddito di cittadinanza e, per fare esempi ancora più significativi, tre volte la cifra investita per sostenere gli insegnanti di scuola secondaria in Italia e oltre il doppio di quanto spendiamo per ricerca e sviluppo.

    Venti miliardi di euro letteralmente donati a istituti che in un mercato non inquinato dalla politica sarebbero tecnicamente falliti, senza peraltro danneggiare i correntisti, ma semmai azionisti e investitori che per loro natura sono portati a correre rischi finanziari.

    Va infatti ricordato che i correntisti sono tutelati dal Fondo interbancario di tutela dei depositi e dal Fondo di garanzia dei depositanti per le banche di credito cooperativo fino a 100.000 euro. Superati i 100.000 euro, gli importi vengono iscritti al passivo della banca in processo di fallimento e liquidati al creditore con regolare iter processuale, a meno di anomalie o casi particolari.

    Chi è meno tutelato è, invece, l’investitore, il proprietario di strumenti finanziari (bond, azioni ecc..) che in misura diversa partecipa al rischio di investimento e di capitale dell’istituto finanziario. Questa dinamica è, però, perfettamente accettabile in un contesto di mercato dove esistono necessariamente successi e insuccessi del mondo imprenditoriale e finanziario.

    Vi immaginate se ad ogni crollo del mercato azionario di un’azienda privata si verificasse costantemente un ingresso dello Stato nei capitali? Sui giornali potremmo leggere titoli come questi: “Apple crolla in borsa perché vende meno iPhone: il Governo USA compensa acquistando azioni”. Oppure: “Disney perde la sfida dello streaming con Netflix: l’Ue valuta ingresso nel capitale”.

    Questi annunci potrebbero essere accolti con sollievo da chi non conosce a fondo le dinamiche di mercato, d’altronde a tutti piacciono i “salvataggi” e a nessuno piace vedere persone o enti morire di stenti, ma purtroppo il mercato produce necessariamente vincitori e vinti. Produce capitali e produce perdite. Produce rischi e produce opportunità. E tutti questi tasselli possono stare in equilibrio se esistono regole valide per tutti, e se viene garantita la trasparenza e l’accesso alle informazioni.

    In mancanza di uno di questi elementi il sistema può subire danni enormi, creando reazioni a catena che possono durare per anni e che pagheremo tutti.

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