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    Tra Netanyahu e Biden ne resterà soltanto uno: ecco perché “Bibi” disobbedisce a Joe

    Credit: AGF e AP

    Netanyahu guarda con interesse alle elezioni Usa di novembre. Sa che disobbedendo ai moniti di Biden può favorire Trump. E quindi anche se stesso. Ecco perché il presidente americano è in difficoltà

    Di Roberto Bertoni
    Pubblicato il 26 Apr. 2024 alle 16:48

    Il “mal d’America”, descritto mirabilmente dal nuovo numero di Limes, è quella sensazione che induce l’ex “Numero Uno” a sentire di star perdendo terreno. Del resto, sono ventitré anni, da quando gli Stati Uniti si accorsero che il loro decantato sogno era ormai diventato un incubo, che il mito d’oltreoceano è definitivamente tramontato.

    Eravamo già ben lontani dai film degli anni Cinquanta, dalla scena di Alberto Sordi di fronte al « maccarone», ma con l’11 settembre 2001, insieme alle certezze, sono tramontate anche le illusioni. Le guerre di Bush in Afghanistan e in Iraq hanno fatto il resto e la crisi finanziaria del 2008 ha assestato il colpo di grazia a un modello economico e di sviluppo palesemente insostenibile. 

    Tramonto a stelle e strisce
    Non a caso, osando l’inosabile, nel suo editoriale Lucio Caracciolo afferma: «C’è molto di sovietico in questo autunno americano. Su tutto, il senso dell’immortalità violata. Fino a ieri anche i più fieri critici dell’American way of life, vera ragione sociale dell’avventura a stelle e strisce, ne davano per scontata la permanenza. Come sole, pioggia o vento. L’autoflagellazione dilagante nella massima potenza d’ogni tempo richiama il titolo di un romanzo gotico di William Faulkner, Mentre morivo (As I Lay Dying), derivato dall’omerica discesa di Ulisse agli inferi. A distanza di una generazione dall’imprevisto collasso dell’Unione Sovietica, pare che molti nell’autoproclamato Impero del Bene temano di fare la fine dell’Impero del Male. Perché non credono più nella bontà del sistema, come i tardosovietici d’età gorbacioviana». 

    Del resto, il Covid prima e le guerre in Ucraina e in Medio Oriente poi, hanno mostrato anche ai più inossidabili cantori delle virtù degli «eredi del Mayflower» (sempre Caracciolo) quanto fossero friabili le fondamenta su cui poggiava il proprio dominio. È bastata, infatti, la pandemia sanitaria, dodici anni dopo gli scatoloni della Lehman Brothers, per suonare la sveglia a un Paese che si credeva immortale e, invece, si trova oggi a dover fare i conti con una corsa alla Casa Bianca che vede protagonisti due ottuagenari, nella terra in cui è stato inventato il giovanilismo e in cui, per l’appunto, venivano dileggiati i sovietici per la loro tendenza a farsi guidare dai vegliardi. 

    Sfida fra ottantenni
    A tal proposito, Joe Biden costituisce l’emblema di questa decadenza. Più vecchio di quattro anni rispetto allo sfidante, politico di professione, da una vita nella stanza dei bottoni e incapace di offrire una speranza a un popolo che da sempre vive nel mito del «diritto alla felicità», può contare unicamente su una verità inoppugnabile: l’avversario è di gran lunga peggiore.

    Donald Trump, difatti, incarna il peggio del peggio della società statunitense: un bancarottiere intento a farsi solo gli affari suoi, con un rapporto con le donne a dir poco inaccettabile, una discreta passione per le dittature e l’ombra di Capitol Hill che si staglia sulla sua campagna elettorale. Nonostante questo, è in testa nei sondaggi. Il che significa che il malessere che pervade la società americana è talmente profondo da essere irrazionale, come sempre accade nei momenti di crisi. 

    Sembra che agli americani non importi nulla della biografia di Trump, di cosa abbia fatto e di quale furiosa vendetta potrebbe inscenare qualora dovessero avere la pessima idea di rimandarlo al potere. Nel loro declino, percepito e reale, il magnate viene visto come un argine, facendo appello a quelle che Bauman chiamava «retrotopie», ossia le utopie regressive che, in mancanza di un presente accettabile e di un futuro anche solo immaginabile, ci inducono a rifugiarci in un passato mitico che, ovviamente, non è mai esistito. 

    Capitolo Ucraina
    In tanta malora, si inseriscono i due conflitti che tengono il pianeta con il fiato sospeso. E considerando che gli Stati Uniti non possono più incarnare il ruolo di “gendarmi del mondo”, siamo al cospetto di una trasformazione epocale.

    Biden, da questo punto di vista, è la persona meno adatta a comprendere e adattarsi a uno scenario multipolare, essendo vissuto nell’aura della Nazione egemone che, sostanzialmente, non doveva chiedere mai perché poteva imporre ciò che voleva.

    Abituarsi all’idea che non sia più così, che Cina e Russia, per giunta in questa fase alleate per via degli errori occidentali, costituiscano un universo parallelo in grado di sconfiggere e assoggettare l’Occidente, non foss’altro che per l’aspetto demografico, è difficile per chiunque ma pressoché impossibile per un uomo di quell’età e con quel passato alle spalle. 

    Eppure, l’impressione è che cominci a rendersene conto anche lui. Il vecchio Joe ha capito, infatti, che con Putin, prima o poi, dovrà scendere a patti, checché ne dicano gli ultimi giapponesi dell’atlantismo nostrano. Perché in Ucraina, in pratica, abbiamo perso: il Paese è allo stremo, i territori conquistati con la forza dai russi non saranno riconquistati, il governo Zelensky è in enorme difficoltà e la sensazione diffusa è che il tempo delle trattative si avvicini. Se non altro perché Biden una virtù ce l’ha: è pragmatico, e sa bene che non avrebbe alcuna possibilità di vincere qualora dovesse presentarsi al voto di novembre con due scenari bellici aperti e la propria area d’influenza, Europa in primis, che ribolle e non riesce più ad arginare i partiti della destra xenofoba, per lo più filo-putiniani e ben carburati dalla disperazione sociale crescente. 

    Il Medio Oriente
    Il dramma, dunque, è Israele. Perché l’Ucraina, comunque sia, appartiene all’universo occidentale, il Medio Oriente no. E gli accordi strumentali, e bisognerà vedere quanto duraturi, che hanno rafforzato la potenza israeliana, consentendole di difendersi con successo dall’attacco pilotato dell’Iran in seguito all’ennesima azione improvvida di Netanyahu, non bastano a rassicurare il presidente americano. 

    Netanyahu, di fatto, è un membro del Partito Repubblicano, molto vicino a Trump e suo arci-nemico. E sa che, in vista delle presidenziali degli Stati Uniti, o cade lui o cade il rivale. 

    Da qui, il messaggio inequivocabile di Biden: vi abbiamo difeso ma non sosterremo un eventuale contrattacco, specie se ispirato dalla furia delle frange più feroci del governo di Tel Aviv. 

    Da qui, la ferma intenzione di Netanyahu di assecondare, sia pur non del tutto, la visione di Ben-Gvir e Smotrich, i due falchi del suo esecutivo, isolando definitivamente il moderato Gantz. Sa, difatti, che, specie in alcuni “swing state”, le minoranze arabe sono decisive per far pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte; e sa anche che il disincanto dei giovani e della sinistra interna nei confronti di un presidente stinto e centrista è al diapason. 

    Pertanto, punta sulla consunzione dell’avversario, logorato dai guai interni e dal potenziale astensionismo dei democratici riluttanti, per fare un favore a Trump, cioè a se stesso, anteponendo la propria pluridecennale carriera al bene del Paese e alla stabilità di un’area la cui esplosione conviene solo a chi, fuori da un contesto di guerra, sa che sarebbe mandato a casa.

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