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    La mia storia nel Pd: ecco perché è arrivato il momento di ribellarsi a questa classe dirigente

    Di Flavia Restivo
    Pubblicato il 28 Set. 2022 alle 13:38 Aggiornato il 28 Set. 2022 alle 13:40

    Una volta una persona mi disse che il Partito Democratico è come quel fidanzato tossico che ogni volta dici di voler lasciare, aspettando che cambi, ma poi non cambia mai. 

    Decisi di voler far politica quando morì mio nonno. Era di Napoli, come mia madre, cosa che aveva sempre creato molti problemi a entrambe. Alle elementari e alle medie sono stata bullizzata per questo e tante altre cose che agli occhi dei miei compagni di classe mi rendevano “diversa”, ma questa, è un’altra storia.

    Quando mio nonno morì, mi ricordai del dolore che provavo da bambina nel sentire a scuola frasi del tipo “Vorrei che il Vesuvio esplodesse, così muoiono tutti i napoletani” e improvvisamente, capii che avrei dovuto trovare un modo per impedire che altre persone si sentissero come mi ero sentita io.  

    Mi chiesi: “Cos’è che dovrebbe cambiare il mondo e farlo diventare un posto migliore”? E per la prima volta mi risposi seccamente: “La politica”. Avevo 17 anni. 

    La mia storia nel Partito Democratico inizia da lì, quando chiesi a mia madre come potevo avvicinarmi alla politica per fare qualcosa di attivamente utile. 

    Lei mi disse di chiedere informazioni a una sua vecchia amica che votava sempre PD, che mi indicò, la giovanile del mio municipio. Iniziai a frequentare la giovanile in modo timido, avendo da subito l’impressione di un luogo in cui si progrediva solo se vi erano amicizie. 

    Tra l’inizio dell’università e l’Erasmus, la mia frequentazione fu altalenante in quanto mi sentivo respinta e allo stesso tempo poco utile alla società. Era come se fossimo distaccati da tutto il resto. 

    Volevo far politica sul territorio, attivarmi e mi sembrava di non star facendo assolutamente niente. 

    Per sopperire a questa mia esigenza, quindi, iniziai ad iscrivermi a tutte le associazioni possibili e inimmaginabili, per migliorarmi, imparare e rendermi “utile”.

    Le persone che conobbi in quei collettivi mi ricordarono che valeva la pena continuare a provare. 

    Sentivo che per uscire da quel pantano avrei dovuto candidarmi e avevo capito che il processo “imposto” sarebbe stato passare prima per il Municipio e poi per il Comune. 

    Nel frattempo, avevo iniziato a raggiungere più persone grazie al blog sull’Espresso e al rafforzamento di quelle reti di attivismo che sentivo così vicine e che coltivavo da tempo. 

    Avevo già fatto presente alla giovanile del mio municipio che mi sarei voluta candidare anni prima, ma ogni volta che provavo ad avanzare proposte e rendermi partecipe mi sentivo esclusa.

    In ogni caso, l’anno scorso fu il primo momento in cui scoprì come funzionavano davvero le candidature. Non avevo mai avuto nessuna speranza, era stato già tutto deciso, senza neanche avvertire gli iscritti. Inutile dire che chi possedeva legami parentali e con il “territorio” trovò tutto pronto. 

    Da quel momento la mia rabbia divenne incontenibile. Ho sempre vissuto con la consapevolezza che l’Italia è il paese delle raccomandazioni, ma pensavo che allo stesso tempo, si volesse davvero puntare allo svecchiamento delle idee piuttosto che al mantenimento del potere. 

    Mi sentivo una stupida ingenua. Totalmente, stupida e ingenua.

    Dovevo trovare un modo per potermi rendere indipendente e trovare la mia voce senza passare per complotti e favoritismi. Così, riuscì a farmi candidare al Comune, una candidatura che fu accettata a inizio agosto, con un solo mese di campagna davanti, in totale solitudine, se non l’aiuto di mia sorella e del mio migliore amico. Ben presto scoprì che le altre candidature erano pronte da anni e che dietro c’era “qualcuno” che portava voti. 

    “Chi ti porta”? la domanda più gettonata. Io rispondevo: “In che senso”? 

    Fino a quel momento vivevo in una bolla. Ma fu stupendo comunque. 

    Perché la mia vittoria più grande fu prendere tanti voti da persone che realmente credevano in quelle mie stesse battaglie e che davvero avevano a cuore determinate lotte.  

    Tantissime ragazze e ragazzi mi diedero la forza e la fiducia necessaria per continuare. Ricordo ancora quante volte piansi leggendo messaggi di persone che si sentivano rappresentate perché anch’io, come loro, “non ero figlia di”. 

    A un anno di distanza, ho capito finalmente come funzionano le dinamiche all’interno del Partito; ho avuto anche dialoghi con qualche capo corrente, ma ogni volta che con sincerità esprimevo la mia volontà di rimanere indipendente e non farmi “burattinare” mi lasciavano stare. 

    Ogni volta che parlavo dell’importanza dell’educazione sessuoaffettiva e di idee per migliorare la condizione femminile, sentivo una totale mancanza di interesse. Nessuna donna del partito mi si è mai avvicinata, il che con mio grande rammarico. 

    Perché sono rimasta in tutti questi anni?

    Perché pensavo di poter cambiare le cose dall’interno, perché ho conosciuto anche persone valide e piene di speranza e perché non avevo nessun’altra alternativa. 

    Perché per una persona come me, come tanti altri, senza particolari sostegni economici e parentali, far parte di un grande partito era l’unica opzione per fare la differenza, o almeno lo pensavo.

    Ripenso spesso alle parole di mio nonno “la politica è una cosa sporca, la può fare solo chi ha soldi e conoscenze”. Aveva fottutamente ragione. Ma se sono ancora qui adesso, a raccontare questa storia, vuol dire che forse qualche speranza ancora c’è. 

    Vorrei tanto che si parlasse di far squadra più che di correnti, che si parlasse di essere radicali, di prendere posizione, piuttosto che di posizione, vorrei che si parlasse seriamente di giovani e donne, ma che fossero i giovani e le donne “della strada” a parlarne. 

    Vorrei che tutti i ragazzi e le ragazze che ho conosciuto in questi anni nelle varie associazioni avessero la possibilità di entrare in un partito e portare innovazione, arrivare ai vertici, senza aspettare di dover compiere quarant’anni. 

    Perché i giovani sono idee, passione, voglia di cambiamento e coraggio. Il coraggio che manca a questa classe dirigente. 

    Agitiamoci, ribelliamoci e sovvertiamo questo status quo. Entriamo in politica, rompiamo le scatole, candidiamoci e cerchiamo di rendere questo paese un posto di cui andare finalmente fieri.

    In ogni caso peggio di così non può andare.

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