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    Mamdani, New York e la ridefinizione della politica dopo Gaza (di S. Mentana)

    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 25 Giu. 2025 alle 17:50

    Si chiama Zoran Mamdani, ha 33 anni, è americano con origini indiane e ugandesi, musulmano, e da poche ore è il candidato designato dei democratici a sindaco di New York. La sua vittoria alle primarie dem, contro l’ex governatore dello stato Andrew Cuomo e una lunga serie di altri candidati ha senz’altro numerosi elementi locali e nazionali, ma siti, giornali e notiziari di tutto il mondo pongono l’accento soprattutto su una cosa: la posizione di Mamdani su Israele e Gaza, nella più nota città d’America, nonché in una delle città con più ebrei al mondo. Una dimostrazione di come l’attuale situazione in Medio Oriente stia contribuendo a ridefinire in parte, da destra a sinistra, in un verso o nell’altro, l’assetto politico di molti partiti in Occidente, ma anche un’anteprima di come nelle elezioni del prossimo novembre, che decideranno il sindaco della Grande Mela, potremo assistere a più d’uno di questi cambiamenti.

    Mamdani, da un punto di vista politico, può essere posizionato nelle frange più di sinistra dei democratici USA. Ha potuto godere del sostegno del senatore Bernie Sanders, di Alexandria Ocasio-Cortez e della sua “Squad”, ha portato avanti un programma basato su una linea abbondantemente progressista, che prevede l’eliminazione del biglietto per gli autobus e limiti all’aumento degli affitti, elementi che hanno contribuito a dargli l’etichetta di “socialista” in un Paese in cui i socialisti sono spesso ancora visti con una certa freddezza. Ma non sono queste idee, che pur di rottura e spesso minoritarie sono da anni ben presenti e rappresentate da figure autorevoli tra i dem a colpire di più e rendere queste primarie e il prossimo voto del 4 novembre paradigmatici nel raccontare una serie di cambiamenti in corso lungo tutto lo spettro politico. Mamdani, infatti, è una delle poche figure della politica statunitense ad aver apertamente preso posizioni molto nette: a Gaza parla apertamente di “genocidio”, in passato ha usato slogan come “globalize the Intifada” – salvo poi ridimensionarlo in un generico messaggio di affermazione sociale – e chiesto apertamente il boicottaggio di Israele sotto diversi aspetti promossi dal movimento BDS (Boycott, disinvest, sanction), il gruppo che chiede numerose misure contro lo stato ebraico e ha attirato per questo contro di sé numerose critiche.

    Questo risultato non è avvenuto in una città qualsiasi. New York, oltre a essere tra le più importanti città degli States e del mondo intero – sono poche le città al mondo in cui l’elezione del sindaco ottiene una risonanza così ampia -, ma è anche una delle città con maggiore popolazione ebraica al mondo – l’otto per cento nelle cinque contee che compongono la città, oltre il dieci e più di un milione nell’area metropolitana -, nonché una delle più coinvolte della protesta contro la guerra a Gaza partita dai campus universitari. I primi sondaggi hanno notato come tra gli elettori giovani al primo voto la maggioranza per Mamdani sia stata schiacciante, mentre sarà senz’altro oggetto di approfondimento quanti ebrei abbiano votato per lui e quanti abbiano scelto altri candidati: la vastissima comunità ebraica di New York è infatti estremamente variegata, tra frange più progressiste e altre ultraortodosse. Se le realtà più conservatrici votano repubblicani e ha poco senso prenderle in considerazione in un’analisi del genere, Mamdani ha ottenuto il consenso di realtà come Jewish Voice for Peace – ebrei apertamente antisionisti e di sinistra -, il grosso delle realtà ebraiche si è schierato su altri candidati, Cuomo in primis. La domanda, ora, sarà se Mamdani riuscirà a convincere questo pezzo di elettorato, tradizionalmente vicino ai democratici, a schierarsi su di lui o le sue posizioni lo terranno lontano, contribuendo a una ridefinizione di rapporti politici già in corso.

    Le elezioni del 4 novembre, infatti, non saranno soltanto tra democratici e repubblicani, e la scelta sarà più ampia. Oltre a Mamdani e al repubblicano Curtis Sliwa – fondatore dei Guardian Angels, gruppo di volontari per la sicurezza, già candidato senza successo quattro anni fa – ci sarà il sindaco uscente Eric Adams, che ha lasciato i democratici con cui è stato eletto e si ricandida come indipendente. Adams in più occasioni ha manifestato il suo totale supporto alla comunità ebraica newyorchese e progetta di far comparire a suo sostegno sulla scheda elettorale anche la “linea” (a sostegno del sindaco non ci sono “liste” nel senso italiano del termine) dal nome “EndAntisemitism”. Per quanto i temi elettorali saranno sicuramente anche altri, se Adams – la cui amministrazione ha dovuto affrontare numerosi problemi di natura giudiziaria e politica – riuscirà a essere considerato un candidato credibile, sarà interessante vedere se l’elettorato ebraico di sinistra e contrario a linee fermamente critiche verso Israele sceglierà Mamdani o preferirà guardare al sindaco uscente.

    Questo voto potrà essere più simbolico di altri perché arriverà in un Paese storicamente vicino a Israele, in cui il sostegno allo stato ebraico è storicamente bipartisan e in più in una città dalla fortissima e storica presenza ebraica. Ma la politica in questo momento, di fronte alla guerra a Gaza, sta assistendo a una ridefinizione che oggi passa da New York ma arriva a molti Paesi del mondo occidentale.

    Da un lato, soprattutto a sinistra, sempre più partiti sposano in modo aperto la causa palestinese arrivando a proporre politiche contro Israele che arrivano alle sanzioni, parlando apertamente di “genocidio” in corso (affermazione che da più parti è oggetto di controversie) e lasciandosi talvolta sfuggire lo slogan “dal fiume al mare”, considerato da molti un modo per opporsi all’esistenza dello stato di Israele. Dall’altro, c’è chi teme che queste posizioni finiscano per essere un cavallo di Troia per posizioni estremiste e contrarie a molti valori occidentali, andando a catalizzare il consenso delle comunità musulmane di molti Paesi e portando quindi tali partiti a sposare molte delle posizioni di queste ultime. Qualcosa che in parte si sta vedendo in Paesi come Francia e Regno Unito, con tutto lo scetticismo del caso da parte di quelle forze che vedono in questo un pericolo.

    Cosa succederà a New York lo vedremo a novembre, ma la ridefinizione in corso delle alleanze e delle posizioni politiche riguarda tutto l’Occidente, in un verso o nell’altro. Una ridefinizione che parte da Gaza in un mondo che cerca un nuovo ordine e in cui anche il quadro politico di ogni nazione né sta cercando uno nuovo, in un Occidente sempre più spaesato che cerca di capire quale sia oggi la sua identità, tra difesa dei suoi valori e decolonizzazione, tra timori di derive estremiste e marginalizzazione del nostro ruolo.

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