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    Il M5S non vota la fiducia in nome dell’ecologia, Draghi si dimette perché “non ne può più”. Chi è l’irresponsabile?

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 15 Lug. 2022 alle 21:59 Aggiornato il 16 Lug. 2022 alle 15:30

    Sono le 23 circa e Giuseppe Conte esce provato dalla sede del M5S di Roma dopo almeno tre ore di riunione del consiglio nazionale del Movimento. I cronisti lo aspettano al varco per chiedergli quella che sembra la domanda più urgente da porgli alla fine dell’ennesimo giorno caldo della legislatura: voterete la fiducia a Draghi mercoledì? Danno per scontato che il premier dimissionario a cui Mattarella ha chiesto di tornare alle Camere per riferire sulla crisi chieda ai partiti che lo hanno sorretto fino a quel momento di accordargli un nuovo voto.

    Ci stiamo aggiornando, ci aggiorneremo, non dichiaro, grazie, buonanotte”, dice scappando a piedi verso casa. È l’uomo del giorno, l’uomo della settimana, l’uomo dell’intera legislatura, ma questa volta siede dall’altro lato della barricata. Il due volte premier due volte deposto dal trono, che a gennaio 2021 aveva lanciato appelli alla responsabilità per non far cadere l’esecutivo beneficiario dei fondi europei per la ripresa post Covid, ha fatto agli altri quello che era stato fatto a lui.

    Ma non con le stesse modalità, e non esattamente. Se fosse stato così irresponsabile come oggi i fautori del governo Draghi – compreso il suo ex collega di partito, Luigi Di Maio – lo definiscono, avrebbe potuto fare molto di più: ritirare i ministri, come aveva fatto Matteo Renzi per far cadere il governo prima di aprire la strada a Draghi. Votare no al decreto aiuti. Non votare la fiducia nemmeno alla Camera. Lo strappo è stato tiepido, la sintesi restituita è stata questa: il M5S ha accettato di entrare a far parte del governo di unità nazionale per favorire la transizione ecologica, il provvedimento della discordia non andava in questo senso.

    La scelta del M5S di andare avanti con la decisione di abbandonare l’aula rispondeva, almeno in apparenza, a una battaglia di merito. Quella di Draghi di dimettersi ha assunto un peso diverso, facendo il rumore di un vaso che trabocca per effetto della famosa goccia. Mario Draghi, baluardo di stabilità e prestigio internazionale, espressione del governo “di alto profilo” che il Capo dello Stato ha chiamato in extremis a febbraio 2021 per salvare la patria, nella conferenza stampa di tre giorni fa a Palazzo Chigi ha annunciato che il governo non sarebbe andato avanti a suon di ultimatum, lanciando a sua volta un ultimatum: o il M5S resta o l’esperienza finisce. Il premier ha cioè avvertito Conte che se i suoi avessero preso la via dell’Aventino, avrebbe portato sulle spalle la responsabilità di un inevitabile crollo.

    Tanto che il leader grillino ha vissuto ore di stallo e tentennamenti, perché non pensava che la minaccia di uno strappo avrebbe portato rapidamente al punto di non ritorno. Non credeva cioè che il premier avrebbe accelerato la crisi. “Prendiamo atto della decisione di Draghi”, ha dichiarato Conte fuori dall’Hotel Campo Marzio, perché fino all’ultimo sperava in una maggiore flessibilità da parte del primo ministro. Invece Draghi è andato fino in fondo. “Dal mio discorso di insediamento in Parlamento ho sempre detto che questo esecutivo sarebbe andato avanti soltanto se ci fosse stata la chiara prospettiva di poter realizzare il programma di governo su cui le forze politiche avevano votato la fiducia. Questa compattezza è stata fondamentale per affrontare le sfide di questi mesi. Queste condizioni oggi non ci sono più”, ha dichiarato in Consiglio dei ministri.

    Probabilmente nessuno degli strappi minacciati in precedenza o dei mini-strappi di fatto avvenuti quando la Lega, più volte, si è astenuta in Cdm o alla Camera dal voto su alcuni provvedimenti anti Covid aveva avuto lo stesso peso per il premier. Ma le fibrillazioni delle ultime settimane sono arrivate al diciassettesimo mese di governo, dopo che l’esecutivo aveva superato indenne, ma non senza strascichi, momenti cruciali che lo avevano messo a rischio: la rocambolesca elezione del presidente della Repubblica, l’esplosione del conflitto in Ucraina, la crisi del gas, l’inflazione, le polemiche in Parlamento sull’invio di nuove armi a Kiev e quelle sulle concessioni balneari. Nessuno di questi passaggi aveva prodotto l’effetto che ha avuto il mancato voto sul dl aiuti, ma l’effetto del mancato voto è stato così dirompente perché giunto al culmine di una fase che aveva già logorato il premier attraverso questi passaggi. Draghi ha ritenuto di non poter fare più nulla per tenere insieme una maggioranza che da sempre ha faticato ad andare d’accordo.

    Ne ho piene le tasche“, avrebbe confidato al numero due di Forza Italia Antonio Tajani dopo che Conte gli ha consegnato il famoso documento delle nove richieste. Al punto che nemmeno la moral suasion di Mattarella, il quale lo ha invitato a parlamentarizzare la crisi e pregato, nel frattempo, di ripensarci, sembra aver sortito alcun effetto e alleggerito il suo fardello. Per una volta ha prevalso il “dolore per l’ingiustizia subita” rispetto al senso di responsabilità per il Paese.

    È vero: governare con due forze politiche scalpitanti e troppo preoccupate per la perdita di terreno nei sondaggi in vista del voto equivarrebbe a non governare. E Draghi pur nel suo ruolo di alto profilo si è sporcato le mani partecipando al gioco dei partiti. Ma lanciando il suo avvertimento ai grillini e abbracciando di petto il dato politico per rassegnare le dimissioni al Colle ha forzato la mano tanto quanto il suo predecessore, se non di più. Davvero non esistevano soluzioni alternative alle dimissioni? Se i 5 stelle avrebbero potuto smussare gli angoli e abbattere il muro eretto intorno al dl aiuti, perché Draghi non poteva abbattere il suo in nome della stabilità del Paese? Dopo tutto, è lui quello che i mercati e la stampa estera invocano per assicurare continuità alle riforme avviate e stabilità sul piano internazionale. Non certo quello di Giuseppe Conte.

    Se in ballo ci sono la stabilità del Paese, la reputazione in Europa, la realizzazione del Pnrr, la linea dura contro Mosca per aiutare Kiev, le manovre da varare per combattere l’inflazione sui tavoli già avviati con le parti sociali, Draghi condivide con il M5S la responsabilità di aver sacrificato tutto questo. E se i grillini hanno compiuto passi timidi verso l’uscita dal perimetro della maggioranza in nome della transizione ecologica, Draghi ha accelerato lo strappo perché di loro non ne poteva più. Chi è il responsabile della crisi?

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