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    Questo modello del lavoro non ci rende felici. E 1,6 milioni di italiani hanno detto basta (di G. Gambino)

    Credit: Pixabay

    Vivere per lavorare e lavorare per sopravvivere. Aumentano le persone insoddisfatte di un modello organizzativo divenuto insostenibile. Ma ad oggi non esiste ancora una visione della società alternativa in grado di soddisfare chi auspichi un cambiamento radicale

    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 26 Gen. 2023 alle 12:36 Aggiornato il 2 Feb. 2023 alle 09:54

    Nel periodo tra gennaio e settembre del 2022, un milione e seicentomila persone hanno lasciato il proprio lavoro: un record, fra dimissioni e fine rapporto dell’impiego, che non può lasciare indifferenti.

    I numeri del ministero del Lavoro rivendicano infatti il diritto di milioni di esseri umani a vivere una vita che valga la pena di essere vissuta. Quasi 2 milioni di persone insoddisfatte di un modello organizzativo divenuto insostenibile. Vivere per lavorare e lavorare per sopravvivere.

    Turni di lavoro estenuanti per più di cinque giorni consecutivi, obbligo pressoché inutile della presenza alla scrivania (con conseguente riduzione della produttività), pochi giorni liberi per i propri cari e ferie limitate. I salari? Fermi da oltre trent’anni allo stesso livello.

    Se è vero, dunque, che già quasi 1,7 milioni di lavoratori ha deciso di intraprendere una strada alternativa, è altrettanto vero però che ad oggi non esiste ancora una visione della società alternativa in grado di soddisfare chi auspichi un cambiamento radicale.

    Tanto è vero che coloro i quali hanno lasciato, lo hanno fatto per un altro lavoro: per la volontà di migliorare la propria vita lavorativa o per scelta personale, un trend sempre più in aumento.

    Nelle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, difatti, le dimissioni sono la ragione principale dopo la naturale scadenza dei contratti a termine.

    C’è chi, come i giovani nella fascia d’età tra i 18 e i 30 anni, è incline a cambiare lavoro più facilmente e più frequentemente rispetto a impiegati di età maggiore, specie nel caso di alcuni settori (servizi e finance) e determinate skills (digital), ma il balzo è tutto sommato significativo tenuto conto che nello stesso periodo del 2021 (dodici mesi prima dello studio preso oggi in esame) le dimissioni erano pari a 1,3 milioni, ovvero il 20 per cento in meno circa.

    A riprova di quanto il modello produttivo del lavoro odierno non sia soddisfacente, colpisce il fatto che il 40 per cento dei lavoratori che hanno scelto di lasciare il proprio impiego lo ha fatto senza avere un’offerta di lavoro alternativa nel momento in cui si è dimesso.

    Sintomo del fatto che chi cambia lo fa perché esausto da uno stile di vita (e quindi di lavoro) incapace di offrire benefici economici sostanziali a fronte dei costi della vita (il 46 per cento dei casi), o per la ricerca di una salute fisica o mentale migliore (nel 24 per cento dei casi), per ottenere più flessibilità (18 per cento), per inseguire un’opportunità di carriera (35 per cento) o al fine di perseguire un proprio sogno e passione (18 per cento).

    A fronte di ciò è tornato a salire il numero dei licenziamenti (sbloccatisi con la fine della pandemia), arrivati a oltre 550mila, ed erano stati 380mila circa nello stesso periodo un anno prima.

    Quale conclusione dobbiamo trarre da questi dati, dunque? In primo luogo che, ad oggi, nonostante la pandemia siamo ancora impantanati nella medesima condizione del mercato di lavoro pre-Covid, senza che quest’ultimo abbia comportato cambiamenti (o peggioramenti) significativi.

    Esiste una fetta di società che sempre meno è disposta ad accettare condizioni vessatorie, lavoro in presenza quando sarebbe possibile invece fare smart-working, retribuzione invariata (o al ribasso) e orari sempre meno adeguati alla vita di tutti i giorni. E che per questo è pronta a tutto, anche a dimettersi, pur di trovare un modello organizzativo sostenibile e incline a una maggiore qualità della vita.

    Se a ciò aggiungiamo che molti impiegati, specie quelli a cui viene chiesto di essere presenti sul posto di lavoro, non sono quasi mai coinvolti nell’organizzazione dell’impresa e percepiscono la propria attività come alienante, il cocktail rischia di essere letale.

    Infine, in questo senso, il più eclatante e rivoluzionario atto che possa verificarsi oggi nel mondo del lavoro, per andare incontro da subito a questa ondata di dimissioni, sarebbe quello di diminuire d’ufficio almeno l’orario degli impiegati pubblici. Un segnale che darebbe un briciolo di speranza e di dignità al mondo del lavoro. E un modello per la società.

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