Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Opinioni
  • Home » Opinioni

    I due Stati sono solo un’illusione? (di Francesco Bascone)

    Il tardivo riconoscimento della Palestina in Occidente prova a riaccendere il miraggio degli Accordi di Oslo. Ormai superato dalla realtà. Ma tra colonie, annessioni, guerre e apartheid, Israele ha già scelto un’altra strada

    Di Francesco Bascone
    Pubblicato il 10 Ott. 2025 alle 15:26

    Il riconoscimento dello Stato di Palestina, reclamato dalle opinioni pubbliche per punire Israele e rifiutato dai governi di Roma e Berlino per il motivo opposto, è certamente un gesto di solidarietà apprezzato dai palestinesi; ma non è un passo verso la statualità della Cisgiordania (con o senza Gaza). È un atto puramente simbolico, con il quale si intende non già stabilire rapporti diplomatici (che già ci sono – molti sembrano ignorarlo – con l’Anp, cioè con un embrione di Stato palestinese), bensì ribadire che la prospettiva dei due Stati non va abbandonata, nonostante tutto. Il presidente Macron, insieme al principe saudita, ha voluto mostrare che c’è una effettiva volontà di contribuire alla realizzazione di quella prospettiva, malgrado gli enormi ostacoli, abbozzando le grandi linee di un regime internazionale per Gaza con una forza multinazionale (come in Kosovo). Ma ha fatto i conti senza l’oste.

    Una strada impraticabile
    L’oste (Netanyahu) ha risposto che il secondo Stato non vedrà mai la luce. È da sempre la sua posizione, anche se in passato si era espresso a volte in modo ambiguo (due Stati a certe condizioni) per compiacere Obama o Biden; parlando in ebraico alla sua platea aveva invece sempre chiarito che di “two-state solution” non si parla. Del resto, sin da quando era andato al potere nel lontano 1996, si era ingegnato a sabotare gli accordi di Oslo del 1993-95 (i quali aprivano la strada alla creazione dello Stato, senza garantire che questo fosse l’esito del processo). 
    Non solo il premier e i suoi alleati di estrema destra, ma una buona parte della società israeliana è da tempo convinta che non c’è posto per uno Stato palestinese ad ovest del Giordano, vuoi per ragioni di sicurezza, vuoi per una pretesa territoriale fondata nella Bibbia. La Cisgiordania viene infatti chiamata – non solo dall’attuale governo di destra ma da tutte le fonti ufficiali sin dalla conquista nel 1967 – Giudea e Samaria, o anche Eretz Israel: e cioè la “terra di Israele” per antonomasia, più biblica che la pianura costiera colonizzata dai pionieri e abitata oggi dalla stragrande maggioranza degli israeliani.
    La costruzione in Cisgiordania di insediamenti ebraici in contrasto con il diritto internazionale, in particolare di quelli collocati lontano dal confine, mira a rendere visibilmente inattuabile uno Stato indipendente, dato che sarebbe privo di continuità territoriale e cosparso di enclavi armate. La rete di strade che collega gli insediamenti fra loro e con Israele, isolando i villaggi arabi, ha lo stesso effetto.

    Colonialismo interno
    Ripristinare una situazione che permetta di creare uno Stato palestinese vitale presupporrebbe lo smantellamento degli insediamenti lontani dal confine e/o il trasferimento forzato dei loro abitanti, cosa impensabile salvo nel caso di un ferreo diktat americano, ipotesi del tutto astratta, o di una guerra perduta, eventualità che nessuno può augurarsi. Il punto di non-ritorno era stato raggiunto al più tardi un quarto di secolo fa quando Bill Clinton, a Camp David e poi negli ultimi mesi della sua presidenza, tentò di salvare il processo di Oslo. A seguito della vittoria elettorale di Sharon nel 2001, la crescita accelerata del numero degli insediamenti e dei loro abitanti ha reso irreversibile la colonizzazione, preludio all’annessione strisciante. Se gli europei volevano mantenere aperta l’opzione dei due Stati dovevano agire allora, esercitare fortissime pressioni. Non lo hanno fatto neanche all’inizio della presidenza Obama, quando era ancora premier il moderato Olmert. Dopo il 2009 non ci sono più stati spiragli.
    L’obiettivo massimalistico dei partiti più radicali che sostengono l’attuale governo è la pulizia etnica integrale. L’obiettivo considerato realistico da Netanyahu è una forte diminuzione della popolazione araba, concentrata in gran parte nelle enclavi urbane, e l’annessione formale del restante territorio (zone B e C in base all’accordo Oslo II), i cui abitanti saranno cittadini di seconda classe, esclusi dal suffragio, come già sono gli abitanti arabi di Gerusalemme est, formalmente annessa nel 1980. Senza escludere un completamento dell’annessione (estensione della sovranità alle zone A) in un secondo tempo.
    Questo regime di colonialismo interno, che di fatto ma non de jure è già in vigore, è per molti versi simile a quello sudafricano degli anni ’70-’80: anche quello giustificava le discriminazioni contro la popolazione originaria lasciando a questa un arcipelago di isole autogestite ma economicamente non vitali: con la differenza che i “bantustan” erano aree rurali mentre le zone da lasciare in un primo tempo sotto il controllo dell’Autorità palestinese sono città.

    Regime di apartheid
    A lungo si è ritenuto che l’annessione, comportando logicamente la cittadinanza israeliana per i palestinesi, non era praticabile perché darebbe loro la parità numerica e in un futuro non lontano la maggioranza in Parlamento. A meno di negare loro il suffragio, trasformando Israele da Stato democratico in Stato dell’apartheid. Ma questo non è più un tabù. La premessa per questa trasformazione è stata posta con la legge del 2018 che definisce Israele “Stato del popolo ebraico“. Nei piani del governo Netanyahu la popolazione palestinese residua sarà sottoposta a varie gradazioni di discriminazione, proprio come nel defunto regime di apartheid in Sudafrica: già oggi vigono regimi diversi per drusi, beduini, arabi israeliani (che hanno rappresentanti nella Knesset), arabi di Gerusalemme, abitanti delle zone A, B e C della Cisgiordania, e infine i gazawi, privati di tutti i diritti elementari, anche il diritto alla vita. Analogamente, in Sudafrica la divisione non era solo tra bianchi e neri ma comprendeva gruppi intermedi: colorati, indiani, bianchi onorari (cioè giapponesi).
    Questo programma fino al 7 ottobre 2023 non riguardava Gaza, che in tempi biblici non era stata colonizzata dagli israeliti e da cui il governo Sharon due decenni fa aveva ritirato i “coloni“ (allora si poteva fare: erano solo diecimila). Sull’onda dell’operazione anti-Hamas, che ora sta raggiungendo il suo apice, si è però sviluppato anche per questo territorio un piano di pulizia etnica e ricolonizzazione, che si è poi amalgamato con gli osceni progetti immobiliari di Jared Kushner e del suocero Donald Trump, assistiti da Tony Blair.
    Probabilmente la meravigliosa Riviera di Gaza non verrà mai realizzata e Israele non riuscirà a sloggiare interamente la popolazione dalla Striscia. Ma farà il possibile per convincere gli Stati arabi, ora riluttanti, ad accogliere una parte di quella popolazione “per ragioni umanitarie”, o per fare posto, “temporaneamente”, ai lavori di ricostruzione. Questa diaspora sarà il terreno di coltura di movimenti irredentisti che continueranno la lotta partigiana di Hamas senza condividere il marchio di infamia del 7 ottobre. Israele manterrà la propria superiorità militare e l’appoggio degli Stati Uniti ma non avrà la pace e dovrà convivere con il terrorismo.

    Diplomazia araba
    L’unica alternativa realistica a questa preoccupante prospettiva è quella tentata dal Qatar, insieme a Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto e Turchia, per convincere Washington a fermare lo sterminio di Gaza e i progetti di annessione della Cisgiordania. Il risultato è un piano che presenta varie lacune e clausole troppo vaghe, eppure rappresenta un significativo passo avanti rispetto ad alcune settimane fa, quando Trump appoggiava incondizionatamente le posizioni di Netanyahu, frutto di compromessi con i partiti di estrema destra. È stato peggiorato da modifiche imposte all’ultimo momento dal premier israeliano, ed è quindi giustificata la richiesta di Hamas e dei suoi avvocati arabi di ridiscutere quelle modifiche o proporne di proprie.
    I venti punti – auspicabilmente depurati dalle non troppo velate allusioni al progetto “Riviera di Gaza” e rinforzati per quanto attiene ai tempi del ritiro dell’Idf dalla Striscia, le garanzie contro una ripresa dell’offensiva, e il ruolo dell’Anp – sono dunque una realistica base di discussione; e in caso di rottura lo rimarranno in una fase successiva. Il pericolo di una rottura è alto: basta che la Jihad Islamica o una fazione all’interno di Hamas rifiuti di deporre le armi; o che Israele si irrigidisca sui suddetti punti.
    Nella più rosea delle ipotesi, un accordo imperfetto metterà fine ai giornalieri massacri e alla carestia a Gaza (non alle prepotenze dei coloni in Cisgiordania), avvierà una difficile ricostruzione della Striscia con contributo scarso o nullo di chi l’ha distrutta, e provocherà una salutare crisi di governo a Gerusalemme, ma non avvicinerà il traguardo della creazione di uno Stato palestinese.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version