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    Un’altra guerra salva Netanyahu

    Credit: AGF

    È il premier più contestato della storia di Israele. Ma lo sterminio di Gaza e l’attacco all’Iran lo fanno rimanere in sella. E accrescono il suo consenso tra gli elettori. Il suo piano ora è più chiaro: riscrivere la geografia del Medio Oriente. Insieme a Trump

    Di Roberto Bertoni
    Pubblicato il 27 Giu. 2025 alle 15:56

    L’attacco americano ai siti nucleari di Fordow, Natanz ed Esfahan, avvenuto nella notte fra il 21 e il 22 giugno scorso, ha cambiato ogni scenario. Se nell’incertezza dei giorni precedenti, quando non erano ancora chiare le intenzioni del presidente americano, avevamo ipotizzato lo scenario classico, ossia l’ennesimo fronte di guerra aperto da Netanyahu per prolungare la propria carriera politica, ora non possiamo che prendere atto del disegno globale portato avanti insieme a Trump. 

    Tutti uguali?
    Torneremo a breve sulle divisioni all’interno dell’universo trumpiano. È interessante ora dare un’occhiata a ciò che sta accadendo nella magmatica galassia israeliana. Pochi premier, infatti, sono stati contestati come Netanyahu, accusato di corruzione e criticato da anni per l’impresentabilità del suo governo, ben precedente al fatidico 7 Ottobre. Cosa c’è, dunque, di meglio di una guerra permanente per rimanere saldo al potere? 

    Se vogliamo capire fino in fondo ciò che sta accadendo a partire dal 2023, non possiamo prescindere da quest’aspetto. E anche stupirsi per la presenza nell’esecutivo di personaggi come Smotrich e Ben Gvir fa sinceramente sorridere: il fondamentalismo messianico è la quintessenza del likudismo in stile Netanyahu. Non è un prezzo da pagare, una necessità dettata dalla realpolitik o una conseguenza del mutato scenario globale ma un preciso progetto politico. Benjamin Netanyahu si percepisce come una sorta di nuovo Mosè, come un uomo destinato a riscrivere la carta geografica del Medio Oriente e come colui che può porre fine all’assedio di Israele, che dura fin dalla nascita, avvenuta “manu militari” nel ’48, in seguito a una risoluzione dell’Onu, e mai accettata dal mondo arabo. 

    A che prezzo, però? E con quali conseguenze? È a queste domande che andrebbe inchiodato, se gli si volesse fare, anche a livello internazionale, un’opposizione adeguata. Purtroppo non succede e non succederà, specie se si considera che persino uno dei più importanti capi dell’opposizione, Yair Lapid, ha dato il suo avallo all’operazione contro l’Iran. Senza contare che una recente indagine effettuata dalla Pennsylvania State University per il Geocartography Knowledge Group, riportata da Haaretz, mostra che l’82% degli ebrei israeliani è favorevole all’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza e che il 56% vorrebbe addirittura la rimozione dei palestinesi residenti in Israele. A ciò si aggiunga che il 47% della popolazione israeliana approva esplicitamente l’uso di metodi di guerra estremi, compresa «l’uccisione di tutti gli abitanti» delle città conquistate. E che dire del fatto che quest’orrore sia approvato dal 70% dei laici e addirittura dal 90% degli ultra-ortodossi?

    Non a caso, si parla ormai di «Amalek», un concetto biblico che richiama il «nemico da annientare», citato dallo stesso Netanyahu in vari messaggi rivolti ai soldati e fatto proprio dal 65% della cittadinanza; un dato che induce ancor più a riflettere se prendiamo atto che il 93% di chi condivide questa narrazione ritiene ormai valido il comandamento di «cancellarne la memoria», a testimonianza di una deriva estremista senza precedenti.

     Infine i più giovani, la spina dorsale dell’esercito: solo il 9% di essi si oppone alle espulsioni mentre il 53% condivide il blocco totale di Gaza, incurante della crisi umanitaria in atto o forse, ed è probabile, convinto che quello sia il prezzo che i palestinesi debbano pagare per il loro sostegno ad Hamas. Parlare di due popoli due stati, insomma,  al momento è pura retorica. 

    Europa al bivio
    Poi c’è l’Europa, un tempo culla dei valori e di una certa idea di civiltà. Un tempo, per l’appunto, perché oggi siamo al cospetto di un continente dominato da posizioni tipo quella espressa al recente vertice del G7 a Kananaskis (Canada) dal cancelliere tedesco Merz, secondo cui Israele, in Iran, starebbe facendo «il lavoro sporco» al posto nostro. 

    Giusto il premier spagnolo Sánchez si è opposto pubblicamente al piano di riarmo varato dalla Nato, in base al quale dovremmo arrivare entro un decennio a spendere il 5% del Pil in armi, a scapito del welfare e di tutto ciò che ha reso l’Unione europea ciò che è attualmente. 

    Quanto agli altri, Starmer si rivela, come da tradizione britannica, il più fedele alleato degli Stati Uniti, riproponendo lo schema che abbiamo visto già ai tempi delle bombe su Belgrado e di quelle sull’Afghanistan e sull’Iraq, in era Blair, di cui del resto l’attuale primo ministro è un allievo.

    Macron, dal canto suo, si è prontamente rimangiato il proposito di riconoscere lo Stato palestinese: aveva avuto una buona idea e dev’essersene vergognato! 

    Italia non pervenuta, ma questa non è una sorpresa. Cosa aspettarsi, d’altronde, da un esecutivo in cui convive la linea di prudente militarismo di Tajani e Crosetto e il no assoluto, almeno per ora, di Salvini? 

    E cosa farebbe Meloni nel caso in cui l’America pretendesse le basi Nato disseminate sul nostro territorio per avere un supporto logistico adeguato per scatenare l’inferno su Teheran e dintorni? Crediamo di conoscere già la risposta, così come sappiamo che un’eventuale evoluzione dello scenario politico in tal senso scomporrebbe lo stesso in maniera definitiva. 

    La guerra ha sempre prodotto questi effetti, ma ora non abbiamo più la solidità di qualche decennio fa, quella che consentiva ad esempio a Ds e Rifondazione di essere avversari in Parlamento e alleati sui territori nei giorni dell’orrore in Jugoslavia. Vale anche per la destra: in caso di rottura su una partecipazione del nostro Paese alla mattanza iraniana, i due schieramenti, per come li abbiamo conosciuti finora, andrebbero in frantumi. 

    L’America di Donald
    Ha scritto Emiliano Brancaccio sul Manifesto di domenica 22 giugno: «Il problema è che oggi lo spettacolare circuito di speculazioni militar-monetarie americane ha raggiunto un punto limite. Il passivo verso l’estero, pubblico e privato, è infatti diventato troppo alto. La conseguenza è che la spesa per interessi sul debito è ormai prossima alla spesa militare americana e si appresta a superarla. Per la prima volta, gli Stati Uniti avvertono il morso di un vincolo finanziario all’apertura di nuovi fronti di guerra». E ancora: «Messa alle corde, l’amministrazione degli Stati Uniti potrebbe giocarsi il tutto per tutto: dar fondo alle risorse militari, caricare il debito sui vassalli e mobilitarli per imporre un nuovo ordine occidentale al mondo. Una nuova pax americana, più che mai nel sangue». Infine: «Donald Trump, dunque, non è semplicemente un pazzo. Il saltimbanco dai denti affilati, che minaccia di ammazzarti mentre sorride e tende la mano, è solo la perfetta incarnazione dell’ultimo, terrificante dilemma dell’impero indebitato». 

    Trump e Netanyahu: due leader in crisi che puntano sulla guerra per salvare se stessi, anche a costo di infastidire non poco il versante isolazionista (Bannon) dell’universo conservatore. 

    Quanto a Gaza, è sparita dai radar: della politica e dell’informazione. Un popolo ritenuto sacrificabile, in attesa di trasformare la Striscia in una riviera per turisti facoltosi.

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