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    Il Pd, Conte e le elezioni. Le incognite della sinistra

    Di Maurizio Tarantino
    Pubblicato il 21 Lug. 2022 alle 16:49 Aggiornato il 28 Lug. 2022 alle 16:31

    “Il Re è nudo”: così scrivevamo pochi giorni fa, nella convinzione che il dado ormai fosse tratto sulla definitiva spaccatura di questa improbabile maggioranza, e sulla consapevolezza che questa spaccatura si stesse sedimentando da tempo e fosse ben lungi dal motivarsi solo nella sola questione rinfacciata a Conte, in termini di responsabilità nel far cadere Draghi e riportare il Paese nell’instabilità. Presente da mesi, ovvero dall’inizio stesso dell’esperienza di governo, latitante negli animi di leader e parlamentari di tutti gli schieramenti, la sfiducia sul “politico” Mario Draghi si è gradualmente quanto letalmente palesata in maniera inesorabile.

    Le istanze avanzate da Giuseppe Conte e articolate in 9 punti, tutte di buon senso e volte al tema della giustizia sociale, sono state solo un sintomo, se volete l’ennesimo e il più profondo, di una patologia che si è aggravata mese dopo mesi. L’aggravarsi della situazione si è manifestata in vari frangenti: la spaccatura ad opera di Luigi Di Maio, le indicibili richieste di far fuori Conte poste a Grillo da parte di Draghi, i veti incrociati che dal Ddl Zan ai recenti Ius Scholae e Legalizzazione della cannabis hanno sancito l’inconsistenza del Partito Democratico nel Governo, i continui tranelli di Renzi e poi il Decreto Concorrenza corredato di veti sulle questioni balneari, e i tassisti, il veto di Renzi sulla riforma Cartabia, … Insomma le piaghe erano ormai evidenti e, al di là di Conte, era palese il fatto che più che di migliori si trattasse di interdetti ad ogni seria decisione. I recenti passaggi però hanno dato l’impressione che non vi sarebbe stato nessun campo largo – come lo stesso Letta oggi conferma – e che piuttosto si stesse lavorando sotto traccia per un 2023 caratterizzato da un “Centro totale” pro Draghi bis.

    Solo questo è il motivo della caduta del governo.

    Ci si interroghi sul perché Berlusconi la settimana scorsa abbia deciso di dare un’accelerazione alla caduta, chiedendo una verifica sulla fiducia del Governo. Chi ha memoria potrà interpretare questo gesto come la chiusura di un ciclo. Nel 2011 Berlusconi fu cacciato dal Monti, già advisor di Goldman Sachs, investito dalle cancellerie europee e d’oltreoceano, in seno a una assillante richiesta di stabilità. Lo stesso Berlusconi, stretto amico di Putin, sempre irriverente nei consessi europei, ieri ha deciso di chiudere con i governi tecnici dei banchieri. L’ha fatto dando copertura alle pulsioni elettorali di Salvini e isolando di fatto qualsiasi velleità di moderazione della Lega di Giorgetti, chiudendo ogni prospettiva a un centro non da lui controllato.

    Qualcuno vede la firma di Silvio Berlusconi in questa caduta?

    D’altra parte il centrosinistra non ha potuto fare a meno di interrogarsi intorno alle forti questioni poste da Conte. L’ha dichiarato apertamente Bersani più volte, così come una parte dei dirigenti, e soprattutto della base del Pd, ha ritenuto legittime – seppur sbagliate nei tempi e nei modi – le istanze dei Cinque Stelle. Non si poteva permettere il Pd di rimanere al Governo senza il M5S in una foto di Governo che a quel punto sarebbe stata: Berlusconi, Salvini, Letta. Quando Orlando, da Ministro di Draghi, dice a Otto e mezzo che “non ci sono le condizioni politiche per rimanere al governo senza i Cinque Stelle” prefigura quello che succederà di lì a poco. Gli spasmodici tentativi per tenere Conte dentro sono stati vani e, al di là delle dichiarazioni, il Pd era rimasto isolato. La questione infatti è proprio la contrapposizione tra due blocchi, quel bipolarismo che si vorrebbe superare ma che almeno fino a ieri ancora persisteva, nonostante i tentativi frenetici di Calenda, Renzi e Di Maio di imporre un Centro ancora sulla carta e oggi orfano della sua principale prospettiva. Su questo, Conte vince la sua prima partita e blocca sul nascere una prospettiva tutta generata sulla strategia di fare alleanze deboli in fase elettorale in grado di far correre i singoli partiti di un Campo Largo dai labili confini, per ottenere un risultato di ingovernabilità dopo le elezioni e invocare così il Draghi Bis. Il coraggio politico di Conte si è palesato in maniera determinate nell’aver rotto una narrazione che larga parte della popolazione non comprende più. Egli infatti si è preso la responsabilità di mettere in discussione il governo, assumendosene i rischi e a lui andrebbero riconosciuti i meriti di un ritorno della politica nei Palazzi e nelle città.

    A sinistra il futuro dipenderà tutto dalla capacità degli attori in campo, a partire dal Pd, al M5S, a Sinistra Italiana, Leu, Verdi. Faranno cooperazione o si faranno concorrenza?

    Pochi minuti dopo le dimissioni di Draghi al Quirinale, Letta ha dichiarato chiusa l’esperienza del Campo Largo prima ancora della sua nascita, prefigurando una corsa solitaria del Pd alle elezioni. Se cosi fosse, ci aspetteremmo un’altra corsa solitaria di Conte, tutta volta alle questioni di cui si è fatto portavoce negli ultimi mesi e concorrente allo stesso PD, in maniera più netta e decisa.

    Da una parte Meloni, Salvini e Berlusconi, dall’altra un frastagliato campo diviso tra centristi e un movimento Cinque Stelle riletto in chiave progressista con il Pd in mezzo. Uno scenario difficile, e forse il peggiore per il centro sinistra.

    Il tema infatti si potrebbe manifestare con una concorrenza a sinistra tra Pd e Conte.

    Un Conte libero dalle alleanze potrà puntare a fare una campagna alla Mélenchon. Ha infatti le carte per rivendicare a pieno titolo molte perplessità avanzate al Governo Draghi: dalle istanze pacifiste alle richieste di giustizia sociale. Potrebbe su questo avere un vantaggio nel proporre temi centrati su una forte identità, in grado di dare risposte alle persone e di mettere in primo piano i punti cardine che oggi angosciano la cittadinanza tutta, come il lavoro e il reddito – sia esso di cittadinanza o salario minimo – quale prima misura in grado di contrastare un’inflazione già oltre la soglia di allarme, la guerra in Ucraina e le sue conseguenze, in particolare la battaglia del gas, la svolta ecologista e gli interventi sull’emergenza idrica e ambientale. Questioni fondamentali che impattano sul portafoglio delle persone in maniera determinante perché difatti ne determinano l’esistenza.

    Il Pd invece potrebbe assumere un carattere non sufficientemente incisivo sulle fasce popolari, anche perché al suo interno vi sono molti dirigenti che guardano con speranza all’alleanza con Renzi e Calenda. Andrebbe poi fatta una seria riflessione su come le battaglie sui diritti – sicuramente fondamentali e da perseguire – abbiano bisogno, per essere messe in campo, di altre priorità in grado di conquistare il consenso popolare. Forse concentrarsi sui problemi più importanti delle fasce popolari offrirebbe prospettiva anche alle battaglie sui diritti. Al di là delle dichiarazioni a caldo, a Letta spetta una scelta. Una parte importante a Sinistra del partito vorrebbe perseguire questi obiettivi in maniera chiara e netta, un’altra invece rimane fortemente centrista e tesa agli accordi di Palazzo e vorrebbe puntare tutto su responsabilità di governo, garanzia di stabilità e altri temi simili.

    Il confronto tra Goffredo Bettini e Stefano Bonaccini nell’ultimo coordinamento rappresenta in maniera plastica questo importante dualismo: il primo afferma che Conte ha posto questioni sociali, lasciando intendere che bisognerebbe guardare con empatia e condivisione all’ex Presidente del Consiglio, l’altro ha assunto un atteggiamento classico da governatore, dando pagelle, mettendo in discussione il rapporto con i Cinque Stelle e puntando tutto sulla responsabilità e vantando meriti sulle capacità governiste del Pd.

    L’idea di andare tutti da soli senza un orizzonte di alleanza è autolesionista sia per il Pd che per il centrosinistra. D’altro canto la scelta se stare con Renzi e Calenda e fare il nuovo centro, in cui la sinistra si dissolva definitivamente, o se proporre un patto di legislatura a Conte e Bersani sarà la questione centrale delle prossime ore.

    Il periodo storico porta al centro una cittadinanza che ha bisogno di risposte nette: serve essere determinati e polarizzati su pochi e chiari temi, agendo in maniera efficace. Serve soprattutto il volto giusto per poter interpretare al meglio lo scollamento tra politica e vita reale che pervade il Paese da oltre un decennio. Pochi mesi fa questo volto sarebbe stato Giuseppe Conte. Molti oggi sostengono come la sua immagine sia logorata, segnato dall’irresponsabilità di aver fatto cadere il governo. Queste sembrano però valutazioni del ceto politico o delle prime linee di un associazionismo indefinito (vedi appelli alla permanenza di Draghi) che non si comprende bene cosa rappresentino nei numeri. I bagni di folla che hanno seguito e continuano a seguire Conte in giro per l’Italia raccontano invece di un altro Paese, scollegato dalle dinamiche di potere e preoccupato per la gestione della vita quotidiana.

    All’Italia serve un leader di popolo, un leader che scaldi il cuore. Se Conte saprà interpretarlo con o senza il sostegno del Pd è l’unica scommessa elettorale della sinistra oggi in Italia. A lui spetta l’onere di sapersi accerchiare delle persone giuste e liberarsi dalle zavorre del Movimento 5 Stelle che ne hanno caratterizzato la decadenza. Servirà perseguire la giusta battaglia in un momento in cui non c’è più tempo da perdere nell’inseguire fantasie grilline e temi vuoti su questioni inutili quanto populiste, come il “non siamo né di destra né di sinistra”.

    Il momento impone identità e unità su una base ideologica e una politica che indichi gli obiettivi, soprattutto in uno scenario che mina le radici democratiche dell’Occidente. Un momento che ridia senso alla rappresentanza per una nuova classe dirigente legittimata dal pieno consenso popolare.

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