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    Anche la guerra è un cinico specchio delle disuguaglianze (di S. Mentana)

    Credit: Steve Evans – Flickr

    In Sud Sudan non vengono spediti carri armati Leopard né si testano missili ipersonici, ma si uccide ancora per controllare una sorgente idrica o per il bestiame

    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 11 Feb. 2023 alle 08:00

    La guerra in Ucraina sembrava aver totalizzato l’attenzione per quanto riguarda la politica internazionale finché l’ormai celebre pallone aerostatico cinese non ha attraversato i cieli americani. Nel resto del mondo trema la terra tra la Turchia e la Siria già martoriata dalla guerra, mentre dall’Iran a Taiwan l’eco dei venti della tensione arriva fino a noi.

    In questo clima le cronache non sembrano aver trovato il modo di parlare della situazione che Papa Francesco è andato a toccare con mano in Africa, dove ha visitato la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan, chiedendo al mondo di togliere le mani dal continente. Proprio quest’ultimo Paese, dove il Papa ha concluso la visita, ha chiuso nel 2020 una sanguinosa guerra civile iniziata nel 2013, appena due anni dopo l’indipendenza, terminata grazie anche agli sforzi della Santa Sede, della Chiesa Anglicana e della Chiesa di Scozia (i cui leader si sono recati in visita nel Paese insieme al Papa).

    Ma nonostante lo scontro tra la fazione del presidente Salva Kiir a quella del suo vice Riek Machar sia arrivata a una conclusione, come in molti altri Paesi africani anche in Sud Sudan continua una guerra a bassa intensità che è molto diversa da quella che occupa le cronache odierne. In Sud Sudan non vengono spediti carri armati Leopard e non si testano missili ipersonici, ma si combatte per il controllo di una sorgente d’acqua e si uccide nelle razzie di bestiame. Si combatte non con le mostrine di un esercito regolare, ma tra agricoltori e pastori, in uno scontro ancestrale per la terra che spesso ricalca scontri tra etnie e comunità e si ripete senza sosta in numerosi Paesi africani.

    Anche il modo di fare la guerra racconta molto delle disuguaglianze. Organizzare un esercito ha un costo, è necessario che ci sia una macchina statale in grado di svolgere un reclutamento, addestrare truppe, rifornirle di tutto il necessario per il sostentamento e mettere loro in mano armi la cui potenza può essere determinante in caso di conflitto aperto. Dove però tali risorse non ci sono e dove le ragioni di uno scontro possono essere un campo coltivato o una mandria di bovini, anche la guerra diventa qualcosa di diverso, più simile a una scorribanda con incursioni di uomini armati di cui le cronache africane sono purtroppo piene.

    Se oggi in Sud Sudan la guerra civile tra Kiir e Machar è finalmente finita, non sono finiti questo tipo di scontri armati che si ripetono in tante parti dell’Africa mietendo vittime su vittime. Anche questo è uno specchio, seppur cinico, delle disuguaglianze, che mostra guerre in cui non ci sono missili e carri armati e in cui, anche se al machete il tempo ha affiancato il mitra, si continuano a vedere dinamiche ancestrali che in alcune parti del mondo il progresso non è ancora riuscito a spazzare via.

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