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    I ghiacciai erano simbolo di eternità, oggi annunciano la fine del mondo (di V. Magrelli)

    Di Valerio Magrelli
    Pubblicato il 17 Ott. 2021 alle 19:33

    La vita di uno scrittore non dovrebbe contare molto rispetto alla sua opera, e su questo siamo tutti d’accordo. Ma quella di Adalbert Stifter, autore boemo di lingua tedesca (1805-1868), ha dell’incredibile. La sua prima parte fu mesta, opaca, convenzionale, segnata dal fatto che, sebbene di umili origini, divenne precettore dei figli di Metternich, il regista del Congresso di Vienna, ossia colui che restaurò il potere di trono e altare dopo l’epopea napoleonica. Ma in seguito, malgrado vari riconoscimenti, il narratore cadde nella depressione, finché, sfinito da una grave malattia al fegato, si squarciò la gola a colpi di rasoio, morendo due giorni dopo.

    Ebbene, nella sua atrocità, una vicenda del genere rende bene la qualità di uno stile amato da Nietzsche e diviso tra un registro descrittivo, tradizionale, e un’inquietudine sotterranea che serpeggia costantemente dietro ogni sua pagina. Tuttavia, se sto parlando di uno dei suoi capolavori, i racconti di Pietre colorate, è per un altro motivo. Vorrei cioè soffermarmi su un testo in particolare, Cristallo di rocca, che narra la storia di due bambini smarriti in una gelida sera d’inverno durante una tempesta di neve.

    Nell’edizione curata per Mursia da Matteo Galli nel 1991 si legge che in questo volume troneggia una Natura “grandiosa e imperscrutabile”. L’osservazione è tanto più pertinente rispetto alla storia dei due fratellini, poiché Stifter approfitta della situazione per illustrare con una minuziosità ossessiva i minimi particolari del bosco, delle rocce, del cielo o dei ruscelli, pacatamente colti nelle loro trasformazioni stagionali. Il suo narrare, però, talvolta si arresta per lasciare il campo a considerazioni più generali, come ad esempio questa: “In tal modo, con scarsi mutamenti, un anno si dipana dopo l’altro, fin tanto che la natura resterà com’è e sui monti ci sarà la neve e nelle valli gli uomini”.

    Sono rimasto colpito dalla serena sicurezza con cui l’autore dà per scontata la presenza della neve in alto e degli uomini in basso. Siamo verso la metà del XIX secolo, e certo nessuno oserebbe dubitare di una natura in cui i fenomeni meteorologici regolano l’esistenza delle creature viventi. Lo si vede ancor meglio in una frase di poco successiva, dove il fanciullo, rivolto alla sorellina, esclama: “Ecco, quello è il ghiacciaio che dal basso sembra così piccolo perché si è molto lontani, e che – come ha detto il babbo – non andrà mai via, fino alla fine del mondo”.

    Il giorno stesso in cui ho letto queste righe, un telegiornale ha annunciato che, per la prima volta a memoria d’uomo, sulla Groenlandia era caduta la pioggia: pioggia invece che neve. Ci siamo, mi sono detto; l’universo di Stifter è finito. Ormai, infatti, i ghiacciai se ne vanno via, annunciando la fine del mondo. Riusciremo a lasciarne qualche traccia per i bambini, se ci saranno, di domani?

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